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 2014  luglio 02 Mercoledì calendario

«LO SHALE GAS VALE 2 PUNTI DI PIL»

[Intervista a Don Clark] –

Quella dello shale gas è una delle rivoluzioni più silenziose ma più radicali nel mutamento degli equilibri energetici ed economici a livello mondiale. In meno di dieci anni gli Stati Uniti, con un aumento pari al 1.400% circa della produzione di gas da giacimenti «non convenzionali» (gas intrappolato nella roccia) sono diventati il primo produttore di gas a livello mondiale e hanno dato un impulso decisivo all’uscita dalla crisi. In Europa invece ci sono molte perplessità su questo tipo di estrazione per l’impatto invasivo sull’ambiente: ne abbiamo parlato con Don Clark, vice presidente Global Application Consulting di Schneider Electric (colosso francese dell’energia), ospite in Italia per un convegno in Bocconi.
C’è molta diffidenza sullo shale gas, i timori per l’impatto negativo sull’ambiente sono fondati?
«È una tecnica controversa perché è nuova: questi problemi nascono ogni volta che viene introdotta una nuova tecnologia, come è accaduto oltre 50 anni fa con l’energia nucleare. Lo shale gas, come ogni cosa umana, comporta rischi, ma sono rischi accettabili, mitigati dall’ingegneria e dalla tecnologia. Noi della Schneider Electric offriamo sistemi di sicurezza e sistemi di controllo complessi proprio per monitorare, gestire e ridurre questi rischi».
In quanto tempo si è realizzata la «shale gas revolution» negli Usa?
«Estraiamo gas e idrocarburi non convenzionali da circa 10 anni. Gli Usa sono vicini all’autosufficienza energetica, e presto esporteranno gas LNG (gas naturale liquefatto, ndr) in tutto il mondo».
Che impatto ha avuto tutto ciò sull’economia americana?
«Il gas naturale non è solo una risorsa energetica, ma viene utilizzato nella produzione di qualsiasi cosa: abbigliamento, pneumatici, plastica, pc e farmaci. L’abbassamento del prezzo dovuto alla “shale gas revolution” ha avuto un impatto sul Pil del 2-2,5%: se si considera che lo scorso anno il Pil è aumentato di circa il 2%, vuol dire che l’intera crescita è di fatto dovuta all’impatto dello shale gas».
L’Europa è molto più cauta, in pochi si sono tuffati sullo shale gas: ma ci sono giacimenti?
«La Gran Bretagna ha iniziato le perforazioni, la Francia è ricca di shale gas e in molti paesi dell’Europa dell’est ci sono shale gas e shale oil. In Italia non ci sono risorse rilevanti, ma grandi competenze professionali da applicare in altri Paesi».
Lo sviluppo dello shale gas ha anche ripercussioni geopolitiche. I Paesi europei potrebbero liberarsi dalla dipendenza energetica di dittature e autocrazie?
«È una decisione politica. I governi democratici come quello francese decidono ascoltando la popolazione, che per ora non vuole il fracking nel proprio territorio. Israele ha fatto una scelta simile, ma dettata dal desiderio di lasciare questa risorsa come una dote per le generazioni future. È una scelta legittima, anche perché il gas rimane sempre lì. Gli Stati Uniti hanno deciso di estrarre il gas in maniera sicura, hanno più indipendenza energetica e hanno aumentato il Pil».
Se l’Europa decidesse di trivellare, in quanti anni si vedrebbero gli effetti positivi?
«Sappiamo già cosa fare: abbiamo esperienza, tecnologia e le infrastrutture. Paesi come la Francia possono raggiungere l’indipendenza energetica in 5 anni».
L’Europa dovrebbe decidere una politica energetica comune o dovrebbero occuparsene i singoli Stati?
«Gli Usa e la Ue per certi versi sono simili: noi abbiamo un governo federale, ma ogni stato ha le sue leggi e sceglie autonomamente su questi temi. Così in Europa: ogni Paese è diverso dall’altro, e ognuno può scegliere la sua politica energetica senza imposizioni dall’alto».
Negli Usa ci sono ampi spazi disabitati: l’impatto dello shale gas nell’urbanizzata Europa non sarebbe più complicato?
«Le uniche cose a impatto zero sono quelle inanimate: anche una mucca ha un impatto sull’ambiente! La civilizzazione richiede energia e infatti il consumo pro capite è correlato al Pil. Il Sudan è molto “green”, ma le persone emigrano...».