Mario Baudino, La Stampa 29/6/2014, 29 giugno 2014
PAVESE
& FENOGLIO. BEPPE VAL BENE UNA CENA -
«Era stato Cesare Pavese, che aveva già pubblicato Lavorare stanca, uscito nel 1936, e poi, più tardi, Paesi tuoi, a parlarmi di Fenoglio e a spingermi a conoscerlo di persona. Io nicchiavo. «Avevo alle spalle il 1946 a Parigi e il 1947 a Londra e dintorni fino alla metà del 1948 quando, di pomeriggio a Torino, dovevo incontrare, casualmente, Adriano Olivetti. Nicchiavo. Resistevo. Ma Pavese, che conosceva bene la natura riottosa dei contadini vagabondi, insisteva». E alla fine l’ebbe vinta. Franco Ferrarotti racconta di quando, giovanissimo, andò nella Langhe, a La Morra, e consumò con lo scrittore ancora del tutto ignoto - e col critico Geno Pampaloni - una sontuosa cena innaffiata di barolo.
Accadde, ricorda, nella «seconda metà del ’48», probabilmente in autunno. Ferrarotti rievoca quell’incontro in una testimonianza che compare nell’ultimo Quaderno del Ce.Pa.M. (Centro Pavesiano Museo Casa natale) a cura di Antonio Catalfamo. Il volume – «Pavese, Fenoglio e la dialettica dei tre presenti» – è dedicato soprattutto al rapporto col mito (per esempio con uno stimolante saggio di Alberto Borghini sul mito di Narciso in rapporto a «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»), ma con questa curiosa incursione fenogliana del grande sociologo.
Che non è solo un colorito ricordo di gioventù, appena velato da un lapsus geografico (Ferrarotti scrive che la cena avvenne «alla Mora», luogo pavesiano della «Luna e i falò», mentre in realtà si celebrò ovviamente alla Morra, dove già allora non mancavano i ristoranti): oltre a un magnifico ritratto di Beppe Fenoglio, della sua conversazione smozzicata e difficile, delle sue considerazioni sulla Resistenza e la vittoria democristiana alle elezioni, contiene quella che potrebbe rappresentare una improvvisa rivelazione. Le «insistenze» di Cesare Pavese contraddirebbero infatti la salda convinzione secondo cui i due grandi scrittori delle Langhe non solo non si incontrarono mai (c’è chi ipotizza un appuntamento saltato all’ultimo alla stazione di Alba) ma sostanzialmente si ignorarono.
Fenoglio conosceva ovviamente le opere di Pavese, irritandosi anzi moltissimo se qualcuno tendeva a considerarlo un epigono, ma le loro vite procedettero autonomamente, senza che si sia mai trovata la traccia di una relazione, un segnale di riconoscimento fra i due autori diventati il simbolo della Langa, della sua cultura, della sua storia. Un Pavese che nel ’48 insiste con il giovane collaboratore perché incontri Fenoglio cambierebbe totalmente la prospettiva. Ne è sicuro, professore? «Me lo disse con molta chiarezza - ci risponde da Roma -: tu che cerchi sempre cose nuove, ricordati che c’è ad Alba un certo Beppe Fenoglio, ed è un giovane interessante». Ferrarotti cercava davvero, instancabilmente. Per Pavese (e quindi per l’Einaudi) traduceva moltissimo; nel ’49 uscirono ben tre libri a lui affidati.
Era curioso di tutto. Chiedeva continuamente all’amico più anziano indicazioni, spunti di lettura, consigli. Il nome di Fenoglio non gli diceva nulla, tanto che fece persino, come racconta, un po’ di resistenza. «Non credo – aggiunge – che Pavese lo conoscesse di persona, e non me ne stupii. Era fatto così, un piemontese introverso che non voleva mai incontrare nessuno. Ma aveva letto certamente qualcosa, non saprei dire che cosa. E aveva capito. Del resto anch’io ne fui molto impressionato. Fenoglio mi colpì subito, perché si intuiva il vero scrittore».
La cena non fu facile, almeno all’inizio, perché, come scrive Ferrarotti, «la conversazione stentava a decollare, annaspava, somigliava a un inquietante ribollire di rutti o a una nervosa sequenza di singulti repressi. Dominava il monosillabo». Si parlò di politica, delle recenti elezioni, della Resistenza. C’è spazio a ricordi che ritroveremo nei romanzi: «La Resistenza - diceva Fenoglio a Ferrarotti - è stata multiforme, polimorfica, molecolare, a chiazze e a grumi poco noti. Non c’è solo la politica. C’erano i sentimenti, le ostilità, le amicizie… I contadini ci davano da mangiare, vino, salami nel grasso… Ma a volte ci temevano come temevano i tedeschi e i fascisti delle Brigate Nere. Venivamo a spogliarli. Il cibo era scarso per tutti».
C’è nel ricordo del sociologo un crescere della confidenza, una comprensione reciproca. Ma questo, in fondo, è il Fenoglio che conosciamo. Quello che compare qui per la prima volta come un fantasma, è il Fenoglio noto a Pavese, il giovane scrittore sconosciuto chiuso nella sua Alba. Non ci sono documenti in proposito. Le prime tracce all’Einaudi sono del novembre ’50, quando Pavese è da poco scomparso; Italo Calvino, cui lo scrittore si era rivolto, gli scrive lodando i racconti a lui sottoposti, che avranno una storia editoriale travagliata. L’ipotesi che l’autore della Luna e i falò avesse intuito qualcosa già nel ’48 è affascinante, ma il ricordo di Ferrarotti non si spinge oltre. Quella sera, del resto, si parlò d’altro. «Per la verità io provai a nominare Pavese - ricorda ancora -. Ma la cosa non ebbe seguito». In che senso? «Perché Fenoglio mugugnò in modo incomprensibile».