Claudio Gorlier, La Stampa 2/7/2014, 2 luglio 2014
È il 1947, e poco più che ventenne lavoro all’«Unità» di Torino, con gli indimenticabili Raimondo Luraghi e Gianni Rocca
È il 1947, e poco più che ventenne lavoro all’«Unità» di Torino, con gli indimenticabili Raimondo Luraghi e Gianni Rocca. Nella scrivania di fronte siede il mio coetaneo Franco Ferrarotti di Casale Monferrato. La pagina culturale è gestita da Raf Vallone, che due anni più tardi lascerà per figurare in Riso amaro. Gli succederà Italo Calvino. Ferrarotti e io lasceremo presto il giornale, io per dedicarmi all’insegnamento e all’avventura americana, lui per un soggiorno americano e poi alla Olivetti. Candidato al Parlamento con il leggendario Ingegnere, alla sua morte gli succederà ma non si ricandiderà alla fine della legislatura. Invece, vincerà a Roma la prima cattedra italiana di sociologia e proseguirà nell’attività giornalistica. Aveva fondato con Abbagnano i «Quaderni di sociologia» e assunse la direzione di «La critica sociologica». E veniamo a Cesare Pavese. Era un mio autentico punto di riferimento. Per un breve periodo era stato iscritto al partito comunista, che non frequentava («se ci vado» mi diceva, «temo che mi chiedano di andare a attaccare manifesti»). Difendeva il suo privato, ma amava il rapporto con i giovani, tra i quali spiccava, come ben sappiamo, proprio Calvino. Io avevo iniziato la mia collaborazione al «Ponte», con Carlo Fruttero, e un giorno mi affidarono un messaggio telefonico per Pavese, che non avevano trovato. A mia volta gli telefonai, e lui, scherzosamente, mi disse: «Perché mai non mi scrivono e si servono di una voce umana?». La battuta si riferiva al titolo di un’opera ormai classica di Jean Cocteau, La voix humaine. La notizia della sua morte mi folgorò: ero in montagna, non ebbi il c oraggio di venire ai funerali, travolto dal senso di colpa per non essergli stato abbastanza vicino. Curiosamente, di lui non avevo mai parlato molto con Ferrarotti, che nel frattempo avevo invece perso di vista. Qui nasce il mistero di un possibile triangolo con Beppe Fenoglio, uno degli amici più decisivi della mia vita. I ventitré giorni della città di Alba, uscito nel 1952, era stato sottoposto in lettura alla Einaudi qualche anno prima, e sono del tutto convinto che con Pavese non ci fosse stato alcun rapporto. Sappiamo bene che Beppe veniva di rado a Torino. Ad Alba ci vedevamo spesso, discorrendo, andando a vedere le partite di calcio della Albese e gli incontri di pallone elastico. Ci univa, tra l’altro, l’amicizia con il suo maestro di liceo, il grande Pietro Chiodi. L’idea di un incontro con Ferrarotti mi sembra assolutamente romanzesca, e comunque Beppe non me ne parlò mai. I ventitré giorni furono curati in modo ambig u o da Vittorini. Poi alla Einaudi maturò una sgradevole gelosia nei confronti di Fenoglio, e preferisco non ricordarlo, anche se con discrezione vi accennammo quando Beppe se ne rese infine conto e cambiò editore, passando a Garzanti. Che nella presunta cena a La Morra si riferisse al futuro Partigiano Johnny non ha il minimo senso. Il progetto prese corpo all’inizio degli Anni Sessanta. Nel settembre del 1962, in un incontro alla vigilia della mia partenza per gli Stati Uniti, ad Alba (parlammo, naturalmente, di guerre civili. Di quella di Secessione Beppe sapeva tutto), mi confidò che stava scrivendo un romanzo nel quale l’italiano si incontrava con l’inglese. «Quando lo avrò finito te lo farò leggere: mi interessa che cosa ne penserai» E, appunto, Il partigiano Johnny, che, come sappiamo, si impone tuttora quale capolavoro «non finito». A Berkeley, nel 1963, mi giunse la notizia della sua morte. Con tutto il rispetto e l’amicizia per Ferrarotti, non costruiamoci un romanzo.