Riccardo Arena, La Stampa 2/7/2014, 2 luglio 2014
LE REGOLE DEI MERCANTI DI UOMINI: «BOTTE, PANE E ACQUA, POI IL DESTINO DECIDERA’»
La conversazione è in tigrino, una lingua parlata in Eritrea e nel Nord dell’Etiopia. È il 31 ottobre scorso, nemmeno un mese prima il Mediterraneo aveva ingoiato e poi restituito 366 persone, migranti stipati a bordo di un barcone ribaltatosi al largo di Lampedusa: «Quando organizzo i viaggi – dice un mercante di uomini – cerco di trattare bene sempre i viaggiatori, facendoli mangiare bene. Ma questo non significa che si possano salvare: è il destino che lo decide… Tutto quello che è successo è volontà di Dio».
I mercanti di morte parlano chiaro, chiarissimo, anche se lo fanno nel loro dialetto: ed è così, partendo dalle intercettazioni, da testimonianze di uomini e donne bastonati e abusati, da osservazioni e indagini durate mesi e mesi, che gli investigatori delle Squadre mobili di Palermo e Agrigento hanno messo le mani su una delle tante bande che trafficano in esseri umani. Con responsabilità che arrivano pure alla tragedia di Lampedusa del 3 ottobre scorso. Un’ecatombe che, a sentire due dei trafficanti coinvolti nel blitz di ieri, è stata colpa degli stessi migranti, che per partire subito avevano creato il sovrannumero: «Le persone vanno picchiate o consigliate – dice John Mahray, uno degli indagati –. Ti assicuro che non gli fa male, perché tu lo fai per il loro bene».
Sono nove i fermi ordinati ieri dal procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia e dai pm Gery Ferrara, Rita Fulantelli, Claudio Camilleri e Emanuele Ravaglioli, ma solo cinque sono stati eseguiti, nei confronti di altrettanti eritrei, accusati di avere agito nel loro Paese e in Sudan, Libia, Israele, Svezia, Germania, Norvegia, Olanda, Francia, Austria, Australia e Canada. Oltre che ovviamente in Italia: a Lampedusa, Agrigento, Roma, Mineo, Caltagirone.
Sono John Mahray e Ermies Ghermay, sudanese il primo, etiope il secondo, entrambi latitanti, a chiacchierare del disastro di Lampedusa: di quel viaggio l’etiope era stato uno degli organizzatori. Ha qualche senso di colpa, ma in fondo uomini, donne, bambini avevano fretta di partire, dopo essere rimasti chiusi per due mesi («Mangiando pane e acqua, ma due volte al giorno»), stipati come bestie nella fattoria-posteggio chiamata Mezra, in Libia: «Non volevano dividersi e con tutta la mia buona fede li ho imbarcati… Potevo anche chiamare la polizia libica, tanto il denaro era già stato incassato, invece li ho fatti partire». I viaggi – solo la traversata verso la Sicilia – costano 4900 dollari a persona. Anche i parenti, ricattati se non pagano subito, avevano fretta di far partire i migranti. «Solo il mio viaggio – insiste Ghermay – ha avuto tutta questa importanza mediatica. Tanti altri sono partiti, con altri organizzatori e sono diventati cibo per pesci. Ma nessuno ne ha mai parlato».
Un campionario di cinismo, che fa da contorno a pestaggi «sulle piante dei piedi, che fa più male», omicidi e stupri. Però il naufragio, «tutto quello che è successo è volontà di Dio». La barca della morte si chiamava Giraffa, era lunga 96 metri, aveva sette cuccette e il bagno: «Ma le persone a bordo erano troppe – ammette Ghermay –. Non poteva rovesciarsi, ma purtroppo la gente non capiva che non poteva sedersi dove voleva». E poi lo scafista aveva dato fuoco a una coperta per attirare i soccorsi, dopo avere buttato via il telefono satellitare: l’incendio a bordo aveva provocato uno spostamento di massa in un unico punto e il ribaltamento del barcone. «Tutti mi hanno dato la colpa per non aver dato ad ognuno il giubbotto di salvataggio – spiega Ghermay – e io ammetto l’errore. Infatti ora glielo do… Ma se gli italiani che erano a 800 metri non hanno potuto fare nulla…». «Niente – risponde John – è stato solo il destino, non è stata colpa tua. È stata solo la volontà di Dio». «L’operazione Mare Nostrum va benissimo – dice il pm Scalia – ma gli scafisti hanno aumentato i viaggi».