Pietro Citati, Corriere della Sera 2/7/2014, 2 luglio 2014
QUALCHE NOTIZIA SU VLADIMIR NABOKOV
Tra il 1935 e il 1937, Vladimir Nabokov, che abitava a Berlino, scrisse il suo capolavoro russo, Il dono (Adelphi). Non è un romanzo come Lolita : ma è un emulo del Tristram Shandy , una grande, colorata bisaccia dalla quale potrete estrarre centinaia di bisacce più piccole, tutto ciò che Nabokov vi ha messo — è anche ciò che potete mettervi voi, facendovi «nabokoviani». Contiene: un libro di poesie; il commento a questo libro di poesie; una manciata di meravigliosi ricordi di infanzia, una tragedia dostoevskijana; un viaggio nell’Asia centrale, compiuto col cuore di Marco Polo; un libro sulle farfalle; un libro sulla letteratura russa, da Puškin a Khodasevic; una perfida e patetica biografia di Cernyševskij; un trattato di prosodia; Berlino prima di Hitler, l’emigrazione russa a Berlino; un poema gogoliano sulle camere d’affitto a Berlino; un poema sulle nuvole; una storia d’amore; una passeggiata nel bosco di Grünewald; una storia di spettri; e l’autobiografia, «rimaneggiata, impastata, rimasticata, inghiottita» di Vladimir Nabokov. Non crediate che tutto questo vi sia dato alla rinfusa, o per frammenti, e dobbiate ricostruirlo nella mente. Un fortissimo vento profumato — profumi di Russia, dell’indimenticata e indimenticabile Russia — soffia su tutte le pagine e le muove e le agita e le trascina e le fa scintillare e splendere tra le vostre mani amorose.
Nabokov ha scritto Il dono nel periodo forse più angoscioso della sua vita. Hitler aveva appena preso il potere in Germania; ed egli, già una volta esiliato, stava per affrontare una nuova emigrazione, alla quale, dopo tre anni, sarebbe seguita l’emigrazione definitiva. Ma Il dono è un libro immensamente felice (spesso la felicità è disperazione capovolta): il più felice tra i suoi; e uno dei più felici che abbia mai letto — segno che la letteratura trova la sua gioia chissà dove, in zone così profonde e segrete, che la realtà non riesce a penetrare. Nabokov ama vivere, immaginare di vivere, dormire, farsi la barba, camminare, guardare le foglie verdissime, i raggi di luce, le stelle. Giunge a scrivere: «Com’è intelligente, com’è squisitamente maliziosa ed essenzialmente buona, la vita!». Nabokov ama sopratutto scrivere: disporre parole sulla carta o nell’aria, corteggiare le parole, venire corteggiato dalle parole; e la sua gioia è così intensa, che non può fare a meno di ammirare se stessa, esibirsi e trionfare splendidamente sopra se stessa.
Se uno possiede le parole come Nabokov, può ignorare ciò che accade nel mondo. La rivoluzione russa, Hitler al potere, queste farse sanguinose e sinistre nelle quali decine di milioni di uomini sono stati immolati in nome delle parole morte sono niente rispetto al vento ardito e luminoso delle vere parole. Con sublime cinismo, doppiato da una nascosta aspirazione utopica, Nabokov ignora, sfida e deride la storia; e la morte e il tempo.
Ciò che colpisce nel Dono è la commovente dolcezz; la tenerezza; e una specie di meraviglioso candore. Non è un candore recitato, come ad esempio in Ada , dove Nabokov, a tratti, finge di essere un’anziana e rosea governante francese che dipinge tenui acquerelli ottocenteschi. È una vera commozione e un vero candore: che potrei paragonare a quelli di Dickens e che forse posseggono soltanto, nelle ultime profondità del cuore, i grandi mistificatori. Questa dolcezza non è mai così dolorosa come quando Nabokov ricorda l’infanzia russa e la Russia. Solo un russo (o un europeo innamorato della Russia) può amare così ardentemente la propria patria; la follia, il gioco, la dolcezza, lo strazio della Russia: «L’aperto e libero spazio che muove alle lacrime il viaggiatore, tutto ciò che di umile e mansueto guarda da un campo, da una collinetta, di tra le nuvole oblunghe, quella bellezza in implorante attesa, pronta a gettarsi tra le tue braccia al primo cenno e a singhiozzare con te — il paesaggio immortalato da Gogol’».
* * *
Nel 1938-’39, Nabokov scrisse La vera vita di Sebastiano Knight (uscito per la prima volta in Italia nel 1948 da Bompiani con la traduzione di Giovanni Fletzer e poi, nel 1992, da Adelphi con la traduzione di Germana Cantoni De Rossi). È un libro esile, senza le infinite variazioni, turgide e opulente del Dono e di Lolita : leggero, frivolo, con la facoltà di ammirazione e di venerazione tipica del giovane Nabokov. Se Il dono è l’ultimo libro russo, La vera vita di Sebastiano Knight è il primo libro inglese di Nabokov: un inglese ancora semplice, non una nuova lingua senza rapporti con nessuna lingua della terra, come il «nabokoviano». L’inizio è bellissimo: «In una giornata d’inverno a Pietroburgo, il lusso straordinario di un cielo senza nubi, messo lì non per riscaldare, ma per puro godimento degli occhi; lo scintillio delle piste di slitta sulla neve ghiacciata delle ampie vie, i lussuosi grappoli colorati portati in giro da un merciaiolo in grembiule».
Non sappiamo il nome di chi racconta: è un narratore quasi inesistente, il quale insegue le tracce, i nomi, i misteri del fratellastro, Sebastiano Knight, nato sei anni prima di lui. Il fratellastro aveva scritto alcuni bellissimi libri, simili a quelli di Nabokov. Come tutti gli scrittori del suo temperamento, Sebastiano Knight doveva sempre superare l’abisso tra il pensiero e l’espressione: l’intollerabile sensazione che le sole parole giuste ti stiano aspettando sul ciglio opposto, in una brumosa distanza. La maniera della sua prosa era un abbacinante succedersi di fenditure. Egli si serviva delle parole come di una specie di trampolino per raggiungere le più alte vette dell’emozione. Era un «clown a cui spuntavano le ali: un angelo che cercava di imitare un saltimbanco». Amava eseguire giochi di prestigio: facendo scontrare i temi o accordandoli sapientemente, costringendoli a rivelare quel riposto significato che può essere espresso soltanto da una successione di onde.
Sebastiano Knight scrisse che la più intensa emozione dello scrittore è la nostalgia dell’esiliato per la terra dei suoi natali. Ma dove sono quei natali? Dov’è questa patria? È un numero. Per Sebastiano Knight non c’era mai stato un 1914 o un 1920 o un 1936 — c’è un solo numero: Uno. E l’amore, in apparenza, è il migliore esponente di questa unicità.
Sebastiano Knight andò a Londra e a Cambridge, come Nabokov: l’Inghilterra era il Paese che aveva sempre desiderato; nel college di Cambridge il suo spirito sembrava aleggiare ancora nel guizzo del fuoco riflesso sui pomi di ottone del caminetto. Lì sognava un bosco di abeti della Russia: mentre cercava invano di identificarsi con l’Inghilterra. Il suo destino era la solitudine. L’inseguimento di Sebastiano Knight continuò a Parigi, in una grigia giornata di novembre, risalendo gli Champs Elysées in direzione dell’Étoile; e si estese e si allargò a Miss Bishop — una ragazza graziosa e quieta.
L’inseguimento del fratellastro non finì mai. Il narratore sentì che la soluzione assoluta era in qualche luogo, celata in una pagina che aveva letto troppo in fretta e confusa con parole la cui maschera familiare l’aveva ingannato. Credeva che qualche straordinaria rivelazione sarebbe uscita dalle labbra del fratello prima di morire. Ma non riuscì a vederlo: né prima di morire né in punto di morte. Allora egli si disse. «Così — io sono Sebastiano Knight. Mi sento come se stessi impersonando lui su un palcoscenico illuminato. Non posso abbandonare la mia parte: la maschera di Sebastiano mi si è saldata sul volto. La rassomiglianza non si toglie. Io sono Sebastiano o Sebastiano è me o forse entrambi siamo qualcuno che né l’uno né l’altro conosce».