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 2014  luglio 02 Mercoledì calendario

IL CASO DEI RAGAZZI ISRAELIANI AMMAZZATI DA ESTREMISTI PALESTINESI


ARTICOLI DEL CORRIERE DELLA SERA

DAL NOSTRO INVIATO NOF AYALON — «Impareremo a cantare senza di te, continueremo a sentire la tua voce dentro di noi». Piange la madre che in questi venti giorni ha pianto meno delle altre due, piange la madre che si è presa sulle spalle il ruolo di parlare senza cedere. Piange Rachel quando ringrazia i soldati «perché avevate promesso di riportarcelo a casa e ci siete riusciti».
Il corpo di Naftali è davanti a lei e alle centinaia di israeliani che hanno camminato verso questo villaggio sulle colline tra Gerusalemme e Tel Aviv, la maggior parte indossa le larghe kippà all’uncinetto, il simbolo dei sionisti religiosi. La Cisgiordania non è lontana, l’incrocio dove il figlio e altri due ragazzi sono saliti la sera del 12 giugno sull’auto sbagliata, quella dei loro assassini.
Le cerimonie e il dolore convergono verso la città di Modiin dove Naftali Frenkel viene seppellito vicino a Gilad Shaar, 16 anni entrambi, ed Eyal Yifrah, 19. Le salme sono state trasportate dalle case dei genitori, accompagnate da migliaia di persone. Adesso a parlare sono i politici, anche per loro è il momento della preghiera, gli annunci, le strategie militari arriveranno dopo: «Un baratro morale ci separa dai nostri nemici. Loro celebrano la morte, noi la vita. Loro inneggiano alla crudeltà, noi alla pietà. Questa è la base della nostra forza» proclama il premier Benjamin Netanyahu dietro a un vetro antiproiettile. «Il terrorismo è come un boomerang: vuole colpire noi, il colpo gli si ritorcerà contro» promette il presidente Shimon Peres.
Quanto il boomerang picchierà duro è quello che Netanyahu discute con i suoi ministri ritornato a Gerusalemme. Prima della riunione, delinea in diretta televisiva gli obiettivi che vuole fissare per l’esercito: dare la caccia e catturare i palestinesi coinvolti nel sequestro e negli omicidi («non molleremo fino a quando saremo arrivati all’ultimo di loro, non importa dove si nasconda. Sono passibili di morte»), continuare le operazioni contro Hamas in Cisgiordania (i due sospettati indicati dai servizi segreti sono legati al movimento fondamentalista), intensificarle a Gaza «se i lanci di razzi lo renderanno necessario».
L’ipotesi di un’operazione militare su larga scala sembra per ora rinviata, di certo non è passata la linea di Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri, che proponeva di invadere la Striscia. Moshe Yaalon, ministro della Difesa, ripete che è il momento di decidere con la testa non d’istinto. L’altra notte l’aviazione israeliana ha bombardato 34 bersagli a Gaza in risposta ai lanci di missili, che sono continuati ieri con l’intervallo per il digiuno di Ramadan: all’alba e al tramonto, poche ore dopo i funerali.
In Cisgiordania l’esercito ha reintrodotto una pratica che non utilizzava dal 2005, alla fine era considerata inefficace: demolire le case dei palestinesi coinvolti negli attacchi. Nella zona di Abu Qatila, vicino ad Hebron, gli artificieri hanno fatto saltare l’ingresso agli edifici delle famiglie di Marwan Qawasmeh e Amer Abu Aisha. Sarebbero loro ad aver rapito i tre ragazzi ed aver sparato pochi minuti dopo averli fatti salire in auto i colpi che si sentono nell’audio reso pubblico ieri: è la telefonata di Eyal Yifrah alla polizia per lanciare l’allarme. «Sono stato rapito», riesce a dire. Poi le urla: «Giù la testa», i botti.
Ai telegiornali gli analisti ammettono che Israele non ha in mano la prova definitiva che leghi l’operazione ai leader di Hamas. Il clan Qawasmeh è noto fin da dalla seconda intifada per attentati che hanno messo in difficoltà le strategie politiche del movimento. Netanyahu non ha dubbi: «Hamas è responsabile e Hamas pagherà». La linea dura del governo deve servire anche a calmare il desiderio di vendetta tra gli estremisti israeliani. Ieri bande di ragazzi arrivati dalle colonie in Cisgiordania dava la caccia ai palestinesi per le strade di Gerusalemme, la polizia ha arrestato una quarantina di persone tra quelli che urlavano «morte agli arabi».
Dalla Striscia di Gaza i fondamentalisti mostrano il lato belligerante («le minacce non ci spaventano», annuncia il portavoce Sami Abu Zuhri), ma avrebbero chiesto alla Turchia di premere su Israele perché rinunci all’offensiva. Hamas è indebolito dalle operazioni in Cisgiordania (400 arresti) e dalle rinnovate divisioni con Abu Mazen, il presidente palestinese. L’intesa per l’unità nazionale tra le fazioni palestinesi vacilla, Abu Mazen ha condannato il sequestro e le sue forze di sicurezza hanno cooperato con gli israeliani nelle ricerche.
Davide Frattini

quell’Odio che Acceca nel Nome dell’«anti Sionismo»
Scrivi di provare pietà per Naftali, Gilad e Eyal e verrai sommerso dagli insulti
Scrivi su Twitter che Naftali, Gilad ed Eyal, i tre ragazzi ebrei rapiti e trucidati in terra palestinese, dobbiamo sentirli come i «nostri» ragazzi, soffrire con loro e con le loro famiglie, averne pietà, detestare i terroristi che li hanno martirizzati, scrivi soltanto questo e verrai sommerso da un diluvio di insulti e contumelie. Il più benevolo tratta quei ragazzini di 16 anni come i numeri di un’equivalenza: non un briciolo di pietà che non contempli, simultaneamente, l’orrore per le gesta di padri descritti come orchi con le mani sporche di sangue. Il più accecato e inselvatichito dal fanatismo antisionista equipara tout court quei tre ragazzi agli aguzzini che non meritano compassione. E senti ancora una volta che una dismisura mostruosa colpisce gli ebrei, il sionismo, l’immagine di Israele. Come se un eccesso di violenza polemica ottenebrasse qualunque ragione, e anche qualunque sentimento semplicemente umano.
La politica non c’entra. Il giudizio politico si interroga sul perché i terroristi hanno voluto colpire in modo così infame tre adolescenti che amavano studiare i testi religiosi e cantare nelle feste che rinsaldano la coesione della comunità. Il giudizio politico può anche criticare i vertici dello Stato di Israele se non sono capaci di fare una pace stabile con i palestinesi. Il giudizio politico spera che la reazione israeliana non porti altri lutti di innocenti. Il giudizio politico sa che la guerra è sempre una cosa atroce. Ma l’odio forsennato per Israele che non riesce a scolorirsi nemmeno di fronte allo spettacolo di tre ragazzi intenzionalmente annientati solo perché bollati con l’etichetta per gli assassini così repellente di «sionisti» eccede ogni giudizio politico. È fanatismo duro. È la disponibilità ad accogliere ancora la leggenda nera degli «ebrei» condannati a un destino cruento che non considera sfumature, giudizi equilibrati. Come se Israele e il sionismo fossero l’ultima materializzazione del Male assoluto per contrastare il quale non si deve escludere nessun mezzo, anche il più ripugnante. Anche il Terrore. Non la guerra, che colpisce indiscriminatamente. Ma il Terrore che colpisce uno ad uno le sue vittime, tre ragazzi che non stavano facendo nulla di male se non, semplicemente, esistere in una delle terre più incandescenti dell’universo.
Il mondo è pieno di tiranni sanguinari, ma nessuno attira una quantità smisurata di odio come Israele, che peraltro non è una tirannia ma una democrazia, eppure viene descritta, senza alcun rispetto per la verità storica, come una congrega di carnefici assetati di sangue palestinese. Quando sono stati rapiti i tre ragazzi (raffigurati come usurpatori violenti di una terra altrui, senza alcuna mediazione), a Roma pattuglie di imbrattatori si sono adoperati per coprire pubblicità israeliane con scritte che deploravano l’essenza «nazista» di Israele. Gruppi di fanatici europei (gli italiani in prima fila in questa classifica della vergogna) partecipavano alla danza macabra che consisteva nel far compiere ai bambini palestinesi gesti con le tre dita che inneggiavano al rapimento dei tre ragazzi, quasi coetanei ma «luridi sionisti»: un sabba di odio e di ignoranza che non è nemmeno giustificato dalla vita degli oppressi, perché è il frutto di uno schematismo ideologico folle e disumano nato qui, non nato nelle terre martoriate. Manipoli di odiatori che non dicono una sola parola sull’oppressione mostruosa che fa sprofondare nella dittatura molti Stati geograficamente contigui ad Israele ma nemici acerrimi del «sionismo» e da sempre nemici di una soluzione politica pacifica per gli israeliani e i palestinesi che contempli la convivenza di due Stati per due popoli.
Jorge Semprun la chiamava «emiplegia ideologica»: un modo di vedere doppio che nasconde una parte della realtà per deformarne un’altra. Sono gli odiatori che non vogliono dire una parola di pietà per Naftali, Gilad ed Eyal. Che aggredivano anni fa le manifestazioni per chiedere la liberazione di un altro giovane israeliano, Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da Hamas, e scambiato con un numero elevatissimo di prigionieri palestinesi. Un odio illimitato, aperto, dichiarato, rivendicato. Senza che faccia scandalo, nell’Occidente che piange per La vita è bella o per Schindler’s List , l’orrore di ragazzi ebrei, uccisi perché ebrei, in nome dell’«antisionismo».
Pier Luigi Battista

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME — Usa la parola «vendetta» ma l’annuncia con le parole del poeta Haim Nahman Bialik. Le frasi scelte da Benjamin Netanyahu poche ore dopo il ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi, lunedì sera, sono state interpretate e studiate come oltre cento anni fa i versi composti dopo il pogrom anti ebraico a Kishinev. Gli analisti cercano di vaticinare quanto la risposta contro Hamas deliberata dal primo ministro si spingerà lontano, quanto colpirà duro. «Satana non ha ancora creato vendetta per il sangue del bambino piccolo», scrive Bialik. E questo passaggio ha fatto pensare a una rappresaglia massiccia. Poche righe prima il poeta però ammonisce: «Maledetto sia colui che dice: vendicati».
Ai commentatori israeliani più attenti restano le statistiche e gli anni passati a decifrare le mosse di Netanyahu. Chi lo conosce bene ripete che — retorica e proclami a parte — il premier vuole evitare scontri militari prolungati. Lo ha dimostrato nel novembre del 2012 — una settimana di bombardamenti su Gaza per fermare i lanci di missili contro Israele — ed è a quella campagna che adesso in molti ripensano. Allora il ministro della Difesa era Ehud Barak, il soldato più decorato della storia d’Israele. Adesso dalla Kirya, il Pentagono di Tel Aviv, comanda Moshe Yaalon che è stato capo di Stato maggiore durante i periodi più difficili della seconda intifada e ha guidato l’operazione Scudo difensivo in Cisgiordania.
«Netanyahu è un primo ministro efficiente in una situazione come questa — commenta Ben Caspit sul giornale Maariv — perché evita le avventure non necessarie e per natura preferisce mantenere la stabilità». «La rabbia, il desiderio di punire e di vendicarsi non sono un piano strategico», avverte Alex Fishman su Yedioth Ahronoth . Della stessa opinione, sempre sul quotidiano più venduto nel Paese, l’editorialista più noto: «Spero pensi al nemico esterno e non solo alla pressione interna. Israele deve continuare a colpire Hamas, bisogna farlo in modo intelligente e chirurgico» dice Nahum Barnea.
Netanyahu ha raccolto voti anche per l’immagine di uomo forte contro i fondamentalisti, intransigente verso il movimento che ha controllato la Striscia di Gaza dal 2007 fino all’intesa con Abu Mazen, il presidente palestinese, di poche settimane fa. Tra i suoi ministri subisce la pressione di Naftali Bennett, leader dei coloni, che pretende la guerra totale contro Hamas. «Adesso Netanyahu deve mantenere quella promessa elettorale — spiega Amos Harel su Haaretz — ma non vuole restare coinvolto in un prolungato intervento militare».
D.F.

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BENNY MORRIS
In questi ultimi mesi, Israele ha visto innalzarsi barriere da ogni lato, che minacciano di accerchiare e isolare lo Stato ebraico. Tre anni fa, l’ondata rivoluzionaria che ha investito il mondo arabo, la cosiddetta Primavera araba, annunciava una soluzione strategica duratura nella regione, con l’indebolimento di Egitto e Siria, le due principali potenze militari arabe che in passato hanno ripetutamente sferrato guerre sanguinose contro Israele.
Ma i recenti sviluppi a Washington, in Turchia, Iraq e Siria, come pure nei territori palestinesi (in Cisgiordania e a Gaza) e persino in seno alla minoranza araba di Israele — 1,5 milioni di cittadini su una popolazione di 8 — sembrano tramare per isolare Israele, limitare i suoi spazi di manovra e minacciare il suo futuro. Negli Stati Uniti, il governo americano ha criticato Israele per il fallimento degli ultimi colloqui di pace con i palestinesi. Il presidente Obama non si ripresenterà alle prossime elezioni e pertanto non si preoccupa di ingraziarsi gli elettori ebrei né di rastrellare i loro contributi finanziari alla campagna elettorale. In molti hanno girato le spalle a Israele, abbandonandolo al suo destino. In Turchia, il primo ministro islamista Erdogan — sostenitore di Hamas a Gaza e dei Fratelli Musulmani in Egitto — gode di crescente popolarità e sicuramente si presenterà alle elezioni presidenziali, visto che già si prepara, con riforme legislative mirate, a rafforzare i poteri della presidenza nei prossimi mesi.
La potente offensiva lanciata dal movimento sunnita Isis, nemico di Israele, nel nord e nell’ovest dell’Iraq, oltre al crescente predominio di questa organizzazione tra le milizie che combattono contro il regime di Bashar Assad a Damasco, pone chiaramente una seria minaccia a lungo termine per Israele. Sui confini di Israele, i territori palestinesi sono in crescente subbuglio, in seguito alla rottura dei negoziati israelo-palestinesi, che rimandano a un futuro non meglio definito la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese, e dopo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani in Cisgiordania. A seguito del drammatico evento, risalente a due settimane fa, Israele ha imposto la sua presenza militare nell’area di Hebron, causando la morte di cinque palestinesi nel corso dei setacciamenti alla ricerca dei ragazzi e dei loro sequestratori, arrestando circa 500 militanti (in prevalenza di Hamas). Le truppe israeliane stanno rendendo ancora la vita difficile nei territori, mentre danno la caccia ai rapitori assassini. Tuttavia, c’è ben poco che Israele possa fare nei confronti della leadership di Hamas, la quale si guarda bene dallo scatenare un attacco in grande stile, con il lancio di missili contro Tel Aviv, per non rischiare le ire del governo americano.
In Israele, i rappresentanti della minoranza arabo-israeliana potrebbero essere già in rotta di collisione con il governo. Un parlamentare arabo della Knesset, Hanin Zoabi, ha dichiarato di recente che i rapitori e assassini dei tre ragazzi «non sono terroristi». Allo stesso tempo, Netanyahu ha approvato la messa al bando dell’organizzazione islamista arabo-israeliana, notoriamente solidale con Hamas. Se la sua proposta dovesse passare, proteste e scontri di piazza saranno inevitabili.
Ma non tutto è perduto. All’orizzonte si profila qualche spiraglio di ottimismo. Innanzitutto, il rovesciamento del regime dei Fratelli Musulmani in Egitto, per opera dell’esercito egiziano, sotto il generale — oggi presidente — Al Sisi. In secondo luogo, la crescente potenza del governo autonomo del Kurdistan nel nord dell’Iraq. Entrambi questi sviluppi contribuiscono a rafforzare la posizione strategica di Israele. Tanto Al Sisi quanto Israele hanno interesse a combattere un nemico comune, i Fratelli Musulmani, i cui leader sono quasi tutti in prigione, e a distruggere il movimento islamista clandestino nella penisola del Sinai. Negli ultimi anni questi islamisti, nascosti tra le tribù beduine della penisola, hanno sferrato attacchi sia contro l’esercito egiziano sia contro bersagli israeliani. Al Sisi inoltre non è amico del regime di Hamas a Gaza, in cui vede il braccio palestinese della Fratellanza.
In quanto al Kurdistan iracheno, dove Israele sin dagli anni Sessanta ha appoggiato i ribelli curdi contro il governo centrale di Bagdad, le forze locali hanno allargato la loro zona di influenza — inglobando la città petrolifera di Kirkuk — man mano che le truppe governative si ritirano verso sud sotto l’offensiva di Isis. Ieri Netanyahu, contrariamente alla politica americana, che punta a mantenere uno Stato iracheno unificato, ha espresso senza mezzi termini il sostegno di Israele alla trasformazione della zona autonoma curda in un vero Stato indipendente.
(Traduzione di Rita Baldassarre )