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 2014  luglio 01 Martedì calendario

ICHINO: NON RI-CONFLUIRÒ NEL PD

[Intervista] –

Pietro Ichino non è corso nel Pd, subito dopo le europee stravinte dal suo vecchio-giovane amico Matteo Renzi e nelle quali Scelta civica s’è liquefatta. Eppure qualche ex-montiano e qualche bersaniano erano pronti a giurarci. Neanche adesso, che altri lo hanno fatto, lui rientra nel partito in cui ha militato dalla nascita, nel 2007, anche se di continuo polemicamente bersagliato dalla sinistra.
Ichino, milanese, classe 1947, giuslavorista, continua a sedere al suo posto nei banchi del Senato.
Domanda. Professore, sta accelerando l’aggregato centrista voluto da Ncd e che coinvolgerà alcuni vostri ex-compagni di «salita in politica» come Udc e (alcuni) Popolari per l’Italia. Che cosa ne pensa?
Risposta. Se è un primo passo verso la fondazione di un nuovo centrodestra capace di confrontarsi con il nuovo centrosinistra sul terreno delle politiche liberal-democratiche, non si può che salutarlo come un fatto molto importante per il rinnovamento positivo del sistema politico italiano.
D. Qual è la prospettiva di Scelta civica a questo punto?
R. Scelta civica era nata a fine 2012 per proporre al Paese un nuovo bipolarismo, alternativo rispetto a quello tra Silvio Berlusconi a destra e l’asse Pier Luigi Bersani-Nichi Vendola a sinistra; soprattutto meglio corrispondente alla scelta fondamentale che il Paese doveva e deve compiere. Un bipolarismo, cioè, tra i favorevoli e i contrari alla strategia europea dell’Italia, centrata sull’accelerazione della nostra integrazione nell’Unione europea e su tutte le riforme indispensabili per questo. L’obiettivo è stato raggiunto soltanto per metà_
D. Colpa del senatore Monti, come qualcuno, un po’ ingenerosamente, ritiene?
R. Monti ha avuto molti meriti, di cui l’Italia deve essergli riconoscente, ma non le qualità proprie di un leader politico: capacità di comunicazione, sapienza tattica, molta pazienza, e un bel po’ di cinismo. Questo, però, non è una colpa.
D. Chi altro ha colpa, allora, del collasso di Scelta civica?
R. Potrei risponderle che la colpa è di Renzi, con la sua capacità di riportare il Pd a competere sul terreno liberal-democratico.
D. E poi?
R. La realtà è che la buona politica non può nutrirsi soltanto di competenze tecniche, per quanto eccellenti; è indispensabile anche la competenza professionale specifica del politico puro. Scelta civica aveva solo le prime e non la seconda. Un bellissimo programma, ma non la capacità di farne una bandiera comprensibile da parte di milioni di persone. Come una Ferrari senza pneumatici.
D. Ora che cosa farete voi parlamentari montiani o ex-montiani?
R. Adempiremo comunque il nostro mandato elettorale, fino al termine della legislatura, sostenendo il governo Renzi, almeno finché manterrà l’impegno a fare le riforme che ha promesso. E incalzandolo quando mostrerà incertezza rispetto agli impegni presi. D. C’è chi pronostica, per lei e per altri, un imminente passaggio al Pd. Per lei un ritorno a casa. Che c’è di vero?
R. Nel nuovo quadro politico che si è determinato dopo queste ultime elezioni, alcuni nostri parlamentari si sono già uniti alle file del Pd renziano, come hanno fatto Edoardo Nesi e Gianpiero Dalla Zuanna. Per quel che riguarda me, vedo tre ragioni in senso contrario.
D. Spieghiamole, professore_
R. La prima di natura, per così dire, estetica: qualcuno potrebbe vedere un mio rientro nel Pd come un atto di opportunismo, un mio essere alla ricerca di cariche politiche; mentre il mio solo desiderio, dopo la fine di questa legislatura, è di tornare a insegnare il diritto del lavoro all’università e, se mi vorranno ancora, a scrivere sul Corriere della Sera. La seconda ragione è di carattere più schiettamente politico: l’obiettivo prioritario del mio lavoro in Senato oggi è il varo del Codice semplificato del lavoro, centrato sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente. Con un Pd ancora così incerto su questo terreno, nonostante Renzi, credo di poter svolgere un ruolo più utile per il raggiungimento dell’obbiettivo conservando una posizione di autonomia, costituendo una voce a sé stante.
D. E la terza ragione?
R. Nei sei anni in cui ho militato nel Pd, dalla sua fondazione al 2012, ho ricevuto molti inviti ad andarmene e manifestazioni di insofferenza, come quando cinque dirigenti democratici di Ferrara si dimisero per il solo fatto che il sindaco e la Camera di Commercio mi avessero invitato a tenere una conferenza in materia di lavoro.
D. Mala tempora, professore_
R. Già, oppure quando, avendo Monti ipotizzato che potessi essere io il suo ministro del Lavoro, l’attuale presidente del Pd, Matteo Orfini, disse che questa scelta avrebbe segnato la fine immediata del Governo Monti.
D. E quindi?
R. Non voglio compiere gesti che possano essere vissuti come provocatori, o avere effetti divisivi. Anche perché non ce ne sarebbe alcun motivo pratico: il mio periodo di servizio civile in Parlamento, incominciato per invito di Walter Veltroni nel 2008, finirà comunque con la fine di questa legislatura.
D. Passiamo a parlare di governo. Che cosa le è piaciuto di questi primi mesi e cosa no?
R. Mi è piaciuta la capacità di Renzi di dare al Paese la percezione che è finita l’epoca dell’inconcludenza, che ha tanto caratterizzato la politica italiana, soprattutto negli ultimi anni. Il premier ha avuto il coraggio e l’abilità necessaria per rimettere in moto, tra le altre, soprattutto la macchina della riforma istituzionale, che si era arenata miseramente, e quella della riforma del mercato del lavoro, che non era stata neppure messa in moto nei dieci mesi del governo di Enrico Letta.
D. Il Jobs Act, però, procede un po’ a strappi, anche perché la minoranza Pd da un lato, e il Ncd dall’altro, frappongono ostacoli. Che cosa, secondo lei, andrebbe emendato ancora?
R. Pur sentendomi, per storia e per vocazione personale, molto più vicino al Pd che al Ncd, devo dire che in questo momento gli alfaniani non stanno affatto frapponendo ostacoli: insieme a Scelta civica sta chiedendo soltanto che il Governo adempia l’impegno assunto un mese e mezzo fa, insieme a tutta la maggioranza, in occasione della discussione del decreto del ministro Giuliano Poletti. È semmai il Pd che sta tirandosi indietro, su questo terreno.
D. Ricordiamo di quale impegno si tratta_
R. Quello che è stato consacrato nella «premessa» inserita nell’articolo 1 del decreto Poletti. La quale dice che quel decreto viene emanato in via d’urgenza, in attesa dell’emanazione di un testo unico semplificato delle norme in materia di lavoro: il Codice semplificato. E dice che questo dovrà prevedere il contratto a tempo indeterminato a protezione crescente, «senza alterazione dell’attuale articolazione tipologica dei contratti di lavoro».
D. Cosa cambia?
R. Non dovrà dunque essere né un «contratto unico» sostitutivo degli altri tipi di rapporto di lavoro, né l’ennesimo tipo di contratto aggiuntivo rispetto a quelli preesistenti: sarà soltanto il buon vecchio contratto ordinario a tempo indeterminato, regolato in modo da garantire la massima flessibilità nella fase iniziale, con una stabilità via via crescente con il crescere dell’anzianità di servizio del lavoratore.
D. Ha detto poco? Si tratta di riscrivere lo Statuto dei lavoratori da cima a fondo.
R. Questo è un impegno preciso assunto da Matteo Renzi all’inizio del gennaio scorso, quando annunciò il contenuto del suo Jobs Act, poi ribadito da Letta a metà febbraio nel documento programmatico Impegno Italia 2014, poi ripreso ancora da Renzi nella conferenza-stampa di metà marzo, e da lui presentato con grande enfasi poco dopo agli altri Capi di governo europei. Ma soprattutto è l’oggetto di un accordo molto preciso tra le forze che compongono la maggioranza, consacrato addirittura in un decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Se il Pd non onora questo impegno, Renzi incomincerà molto male il suo semestre di presidenza europea.

Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 1/7/2014