Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 28 Sabato calendario

CI VORREBBE UNA BELLA GUERRA PER USCIRE DALLA CRISI


A sette anni dal fallimento della Lehman Brothers sono finiti gli angoli dietro cui, secondo commentatori e politici, si nasconderebbe la ripresa. Sempre creativi, e per lo più brancolando nel buio, gli economisti si sono immaginati molte spiegazioni per razionalizzare il periodo di bassa crescita, evocativamente definito da Larry Summers la “grande stagnazione”, che sta caratterizzando l’economia globale in questo primo scorcio di secolo: dalla domanda troppo debole, alla crescita delle diseguaglianze passando per la competizione cinese, la iper-regolamentazione e i bassi di investimenti in infrastrutture, per finire con l’esaurimento di nuove idee imprenditoriali, l’impatto delle nuove tecnologie o persino le condizioni atmosferiche. I possibili colpevoli sono tanti.
Eppure il caleidoscopio apotropaico di giustificazioni non finisce qui. Anzi. Tyler Cowen, professore di economia alla George Mason University, è di recente intervenuto sul New York Times con un’ulteriore giustificazione. Secondo l’animatore del frequentatissimo blog Marginal Revolution, la bassa crescita del XXI secolo è dovuta all’assenza di grandi guerre. Alla persistenza e aspettativa prolungata della pace.
Sembra un paradosso, eppure la tesi può essere più solida di quanto appaia a prima vista. Nonostante le news più recenti, infatti, l’umanità non ha mai vissuto un’epoca pacifica come quella attuale. Per sopprimere la ribellione gallese tra il 1294 e il 1295, l’esercito di Edoardo I si aggirava attorno alle 31mila unità, circa lo 0,6% del totale della popolazione inglese dell’epoca. Oggi l’esercito inglese ha 200mila unità attive – lo 0,003% della popolazione totale. E nonostante la società inglese pre-industriale (secondo il libro A farewell to Alms dello storico economico della University of California Gregory Clark) fosse relativamente pacifica grazie al suo isolamento geografico, i combattimenti dei trent’anni di Guerra delle due Rose (dal 1455 al 1485) hanno registrato un tasso di mortalità dell’1,5 ogni mille persone, un numero 7 volte più grande dello 0,2 su mille a livello mondiale registrato durante il maggiore conflitto del XX secolo, cioè la Seconda guerra mondiale. Un tasso crollato drasticamente nella seconda metà del secolo, e fino agli attuali 0,3 morti per ogni 100mila persone, stimato dal docente di Harvard Steven Pinker. Insomma, l’impatto relativo delle guerre è diminuito con l’avanzare della storia umana. E questo, secondo Cowen, è un problema. Dal punto di vista della crescita economica almeno. Ci sono almeno quattro canali che possono giustificare questa affermazione.
Il primo ha a che fare con il rapporto storico tra guerra e istituzioni. È nota la tesi del famoso politologo americano Charles Tilly, secondo cui «War made the states and the states made war» (la guerra ha fatto gli Stati e gli Stati hanno fatto la guerra). La tesi di Tilly, richiamata anche di recente da un articolo di tre economisti (Chiu Yu Ko, Mark Koyama e Tuan-Hwee Sng) sulle ragioni della divergenza tra Cina ed Europa, è che sia stata l’alta conflittualità all’interno del continente europeo a spingere lo spostamento progressivo dell’organizzazione militare verso eserciti non più composti mercenari, come accadeva tipicamente nel medioevo, ma da un vero e proprio apparato militare legato al sovrano, così in grado di governare il territorio esercitando il monopolio della forza. La presenza permanente di forze armate che rispondevano all’amministrazione centrale costituisce la base degli Stati moderni, e la condizione di possibilità per la pacificazione territoriale interna di una società, quella umana, che storicamente ha mostrato tassi di violenza molto elevati: alcuni studi sulla base dei reperti archeologici del neolitico hanno stimato che circa il 10-20% di tutte le morti delle società pre-agricole di cacciatori o raccoglitori era di tipo violento, spesso causate da altri umani. Erano tempi con poche persone, insomma, da cui era meglio stare alla larga. Nelle società industriali contemporanee, secondo War: What is it good for? del classicista di Stanford Ian Morris, il tasso di morti violente è crollato, grazie alla pacificazione degli apparati statali creati sulla spinta delle esigenze di guerra, all’l-2%, con effetti benefici sui commerci e in generale sullo sviluppo economico.
Tesi analoga è espressa in War and gold: a 500-year history of empires, adventures and debt dal membro conservatore del parlamento britannico Kwasi Kwarteng. Riprendendo il Keynes secondo cui «la necessità di pagare per le guerre è stato il principale motore della finanza moderna», Kwarteng sostiene che la crescita del mondo occidentale nel XIX si è basata proprio sullo sviluppo delle istituzioni monetarie e finanziarie (compresi gli apparati burocratici di tassazione e la conseguente tutela della proprietà privata), spinte dalla necessità dei sovrani di finanziare i propri eserciti.
Un secondo possibile canale che collega crescita economica e guerre è individuato dall’economistar Thomas Piketty nel suo Capital for the XXI Century e ancor di più in una lezione pubblica tenuta al College de France nel 2011. Facendo riferimento all’andamento del rapporto tra reddito da capitale e reddito da lavoro in Francia tra il 1800 e gli anni 2000, Piketty mostra come il primo sia storicamente crollato durante le due guerre del ’900, a seguito della distruzione fisica dei capitali dovuta alle devastazioni delle due guerre mondiali. Facendo tabula rasa di molti dei patrimoni immobilizzati esistenti, secondo i dati di Piketty le guerre tendono a portare a una diminuzione della diseguaglianza e a un cambiamento della geografia della ricchezza che porta sulla scena economica nuovi attori, nuove idee, e un processo dinamico benefico dal punto di vista della crescita di lungo periodo.
Il terzo punto di vista è quello classicamente keynesiano, che riprende l’idea secondo la quale la Grande Depressione statunitense degli anni ’30 non si sia in realtà conclusa con il New Deal lanciato da Franklin Delano Roosevelt ma con la Seconda guerra mondiale, che avrebbe spinto in alto la spesa pubblica Usa ben più del piano di Roosevelt e aumentato i posti di lavoro, spingendo in alto la domanda interna e spingendo gli Stati Uniti al definitivo sorpasso sull’Europa.
La tesi di Cowen, tuttavia, si differenzia da ciascuna delle tre precedenti e si concentra invece sugli incentivi dei policy-makers in tempo di guerra. «La stessa possibilità di una guerra focalizza l’attenzione dei governi sul prendere correttamente alcune decisioni basilari – che sia rinvestire nella scienza oppure il liberalizzare l’economia – che si riflettono sulle prospettive di crescita della nazione», si legge nell’articolo. E sebbene l’affermazione possa apparire controintuitiva le evidenze a suo favore esistono. Innovazioni fondamentali come l’energia nucleare, i computer e l’aeronautica moderna sono stati tutti generati dall’esercizio del governo statunitense nel tentativo di sconfiggere le potenze dell’Asse o, successivamente, l’Unione Sovietica. Persino internet, come spiegato da Mariana Mazzuccato nel suo Lo Stato Innovatore, è stato generato nell’ambito del progetto militare Darpa per aiutare gli Usa a gestire un eventuale conflitto nucleare, e la Silicon Valley si è originata attraverso collaborazioni con l’industria della ricerca militare stanziata nella Bay Area di San Francisco. La guerra, o la sua aspettativa, spinge i governi ad agire su un’urgenza che altrimenti non avrebbero. Il Manhattan Project, ad esempio, ha prodotto un ordigno nucleare in soli sei anni, e al suo picco consumava circa 0,4% del pil americano – una quota inimmaginabile oggi come destinazione di un solo progetto di ricerca.
Pensare che la guerra faccia bene all’economia non è piacevole. Anche perché, ammesso che possa davvero beneficiare il sistema nel suo complesso, i costi che la guerra impone sui singoli sono incompatibili con le esigenze di una società democratica. E perché l’aspettativa della guerra probabilmente spinge a deprimere l’intrapresa individuale che, da Schumpeter in poi, è considerata la base della dinamica di creazione di lavoro e ricchezza. Senza contare che i vantaggi di vivere in un mondo pacifico che cresce al 2% invece che in un mondo in guerra che cresce a tassi doppi potrebbero essere comunque ben più ampi. La vera domanda, tuttavia, che tutti gli autori in questione si pongono è: possiamo fare di meglio, ottenendo più crescita e più pace? Il modello non l’abbiamo ancora inventato.
twitter @NicoloCavalli