Alina Marazzi, l’Unità 28/6/2014, 28 giugno 2014
LA CINEPRESA DELLE DONNE – RIVOLTA FEMMINISTA NEL CORPO, NEL LAVORO, NELL’ARTE
QUALCHE ANNO FA HO REALIZZATO «VOGLIAMO ANCHE LE ROSE», un film di montaggio di filmati e fotografie di repertorio che restituisce un ritratto eterogeneo di donne italiane negli anni Settanta.(...) Il film è soprattutto un’opera che ha voluto riportare alla luce alcuni importanti, benché minori, documenti visivi del tempo: film, fotografie, immagini che sono state a volte dimenticate o perdute tra gli scaffali degli archivi.(...) Grazie al mio curiosare tra fogli e foglietti nei faldoni accuratamente conservati presso Archivia della Casa Internazionale della Donne a Roma o la Fondazione Badaracco a Milano, trovai interessati indizi che mi portarono alla scoperta dei primi film fatti da donne in quegli anni. Ad Archivia trovai il programma della prima Rassegna Internazionale di Cinema delle Donne, Kinomata. La donna con la macchina da presa, organizzata a Roma nel 1976 da due registe, Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio. Ulteriori ricerche su di loro mi portarono sulle tracce di un film da loro realizzato nel 1971 insieme ad altre, dal titolo L’Aggettivo Donna, un film citato anche in altri documenti e definito il primo film femminista italiano, realizzato dal Collettivo Cinema Femminista. Come è noto, in quegli anni sorsero una molteplicità di gruppi di donne in diverse città italiane, ed è per questo giusto pensare a quella stagione come generatrice di tanti femminismi, piuttosto che di un unico movimento femminista compatto e unitario. All’interno dei gruppi, che si distinguevano sommariamente tra quelli che prediligevano la discussione rivolta all’interno del gruppo e quelli che invece cercavano maggior dialogo e incontro nelle piazze con le altre donne, la riflessione e l’approfondimento sulle tematiche care al movimento ha dato vita a un’intensa produzione di pensiero declinata soprattutto nella forma scritta di volantini, documenti e riviste tra le quali vanno ricordate effe, Differenze, Sottosopra, Quotidiano Donna.
In quegli anni molte donne cominciarono a impugnare la macchina fotografica per documentare i momenti di incontro e di lotta, e alcune riuscirono a fare della fotografia una professione. In quel momento di grande vivacità anche il linguaggio cinematografico divenne mezzo di riflessione e produzione culturale, grazie ai nuovi mezzi di ripresa «leggeri», come la macchina da presa 16mm e il videotape, già utilizzati dagli autori del cinema militante italiano di quegli anni, tra cui il più noto e prolifico è stato Alberto Grifi. È in questo contesto che nel 1971 nasce a Roma, all’interno dei gruppi di via Pompeo Magno, il Collettivo Cinema momento storico». Aldilà dei toni altisonanti, la sostanza è rimasta sempre la stessa nel contesto italiano di produzione di immagini e immaginario! E ancora: «È IN QUESTO SENSO CHE CI INTERESSANO I MEZZI AUDIOVISIVI: per parlare con le altre donne, per esprimere un nuovo modo di essere donna senza per questo volere imporre nuovi modelli. Sino ad ora la donna è stata espressa dall’uomo o si è espressa tramite l’uomo che capitalizza la sua creatività, le sue idee, il suo lavoro, le sue energie vitali. Vogliamo parlare in prima persona delle nostre esperienze, della nostra alienazione, dei nostri disagi, in una società aggressiva e alienata basata sullo sfruttamento e sulla divisione del lavoro e dei compiti secondo il sesso». Oltre alla riflessione teorica, il manifesto propone anche azioni pratiche e «situazioniste»: «Presentazione di film femministi in scuole, fabbriche, quartieri, cineclub per prendere contatti con altre donne; realizzazione di film a soggetto, documentari, inchieste sulle donne e i bambini per riscoprire la loro realtà ignorata e distorta e portarla alla coscienza della collettività. Donne e bambini non saranno l’oggetto del nostro lavoro, ma i soggetti attivi di una ricerca comune».
Con queste premesse, dovevo assolutamente vedere quel film! (...)
Mi siedo alla moviola e inizio a scorrere il film: nei titoli di testa elencanti gli autori, compaiono anche nomi di un paio di uomini e spicca quello di Annabella Miscuglio, artista e cineasta che, nel 1967, fondò a Roma insieme ad Amerigo Sbardella e Paolo Castaldini, il Filmstudio70, mitico cineclub che programmava cinema sperimentale e militante, punto di riferimento dei filmmaker indipendenti italiani.
I cartelli iniziali lasciano spazio a una carrellata di dipinti classici che ritraggono figure femminili iconiche – Mona Lisa, Maja Desnuda, Dejeuner sur l’herbe – mentre una voce fuori campo femminile commenta: «io sono colei di cui si parla ma non parlo, colei di cui si scrive ma non scrivo, sono dipinta, ridipinta, scolpita, ma la penna e lo scalpello mi sono estranei» e ancora «io sono quella che non ha linguaggio, quella che non ha volto, quella che non esiste, la donna». La sequenza termina con la dichiarazione di una donna estrapolata dalla discussione di un gruppo femminista, che riassume: «basterebbe che ogni donna analizzasse la sua vita per essere femminista». Da questo assunto, così chiaro e semplice, muove tutta la riflessione di questo film-saggio che si sviluppa come una sorta di inchiesta sui diversi aspetti della condizione femminile: il lavoro fuori e dentro casa, i modelli di genere imposti tramite l’educazione scolastica, la sessualità e la gestione del proprio corpo. Il film appare tecnicamente limitato soprattutto per quanto riguarda la registrazione sonora, probabile esito della poca esperienza pratica del collettivo alle prime armi, e la narrazione è articolata per blocchi, un po’ rigidi e programmatici dal punto di vista cinematografico, ma che seguono una logica precisa che sembra rispecchiare punto per punto il programma del Manifesto per il cinema clitorideo vaginale.
L’occhio documentario delle autrici ruba immagini per strada di giovani in minigonna e, all’interno di un teatrino, lo stucchevole balletto di un varietà con donne seminude sculettanti vestite di soli pennacchi; su queste appaiono in sovrimpressione delle frasi, citazioni da importanti filosofi del Novecento. Ne riporto qualcuna: «Che disgrazia essere donna! Tuttavia il male peggiore consiste nel non capire che è un male», Kierkegaard; «Le donne hanno un gran talento ma nessun genio perché rimangono sempre soggettive», Schopenhauer.
(...) La «scoperta» di questo film mi ha permesso di confrontarmi con le prime coraggiose registe femministe italiane e di includerne alcuni spezzoni in Vogliamo anche le rose, insieme ad altre sequenze tratte da La lotta non è finita, mediometraggo successivamente «concepito, gestito, partorito interamente da donne dal Collettivo Cinema Femminista» (così recitano i titoli di testa), nel 1973 e di cui si fa anche riferimento nel Manifesto e conservato presso l’AAMOD a Roma.
(…) Utilizzando nel mio film repertori provenienti da film femministi come questi, ho voluto rendere omaggio a queste pioniere del cinema di genere italiano, che, anche se negli anni si sono poi perse per strada, hanno coraggiosamente messo in discussione i dettami di un certo cinema, esplorando le potenzialità del cinema fuori formato, non-finzionale, rompendo con la tradizione narrativa classica.
Donne con la macchina da presa.