Francesco Pacifico, Il Garantista 29/6/2014, 29 giugno 2014
ELSA FORNERO EX MINISTRO DEL LAVORO
«Questo è un Paese dove chi può, prova a scaricare sullo Stato e sulle generazioni future il prezzo dei propri errori. E non sente neppure il bisogno di ammettere quello che sta facendo». Questo concetto Elsa Fornero lo ripete con imbarazzo, a bassa voce. Lei, professoressa, non ama pontificare. È ancora frastornata dai due anni passati a Roma fa. Nel 2011, a quest’economista torinese severa e garbata allo stesso modo, l’Europa, la Bce, la Merkel e tutti i poteri forti della Terra chiesero di portare l’età pensionistica italiana a 66 anni e di superare il dogma dell’articolo 18. Lei provò a lenire il tutto rendendo molto onerosa la precarietà per i giovani. Complice alcuni incidenti – lo scoppio della grana esodati, gli irrigidimenti sui contratti a tempo – è metafora, nel dibattito pubblico, di rigidità ostinata e tenace. Poco importa che giri il mondo per illustrare la sua opera, speri che i suoi successori rendano «più flessibili le regole di pensionamento» e abbia rinunciato alla pensione da ministro del Lavoro.
Partiamo da qui.
In Italia ci sono assegni troppo alti. Mi ha colpito vedere cancellato il contributo sulle pensioni più alte. Forse anche per questo ho rinunciato al vitalizio da ministro.
A quanto ha rinunciato?
Ho preferito non saperlo. Credo che fosse il doppio rispetto a quella da professore universitario.
Intanto ci sono altri 8mila esodati.
Questo intervento era già implicito. Due anni fa non avevamo numeri precisi. Ma ci eravamo detti con i miei collaboratori che, in caso di persone senza copertura, queste sarebbero state salvaguardate. A dimostrazione del fatto che l’intento era quello di risolvere il problema senza volerlo strumentalizzare.
Per la gente è il contrario.
Provo ancora molta amarezza. Io non volevo punire nessuno. Quello che ho fatto, l’ho dovuto fare per salvare il Paese. E per dare un contributo per salvare l’euro. Se avessi intuito quello che sarebbe successo, l’avrei risotto a priori. Non avrei mai messo soltanto 65mila esodi nella prima salvaguardia. Avrei detto ai miei collaboratori, ragazzi fermiamoci e vediamo quanti sono i lavoratori che rischiano.
Avete fatto tutto troppo di fretta.
Siete mai stati recentemente ad Atene? Forse fare un viaggio in Grecia aiuterebbe a capire quello che è successo. A parte che ce l’ha chiesto la Bce nella famosa lettera dell’agosto 2011. Alla prima riunione del consiglio dei ministro, Mario Monti mi prese in disparte e mi disse: «Tu dovrai preoccupare di fare la riforma delle pensioni».
E lei cosa rispose?
Gli chiesi soltanto quanto tempo avevo. Mi rispose: «Hai due settimane, massimo venti giorni».
Gli esodati ora sono 170mila.
Io e i miei collaboratori fummo prudenti nelle stime, perché non avemmo mai numeri di prima mano. Nel 2012 le imprese non avevano neppure iniziato a individuare il personale che si sarebbero trovate senza lavoro. Sindacati e imprese non comunicavano gli accordi che portavano i lavoratori verso la mobilità. E non vuol dire che non avessimo paura di sbagliare.
L’ha fatto?
Sono stanca di processi. Tutto è stato visto in maniera negativa. Ed è difficile discutere per me che nella mia vita mi sono sempre affidata a un’argomentazione pacata. Io volevo soltanto risolvere la situazione in una maniera più equa. Questo vuol dire partire dal presupposto che ci sono state persone esodate loro malgrado e altre che hanno scelto di andarsene e sono uscite con un gruzzoletto.
Chi ne ha approfittato?
Nella condizioni di opacità, è stato facile che qualcuno ne approfittasse. Ci sono lavoratori che hanno rischiato di restare senza tutela. Altri che hanno lasciato il lavoro con una pensione retributiva che si sono pagati soltanto in parte e con un accompagnamento monetario da parte delle aziende. A queste persone si doveva chiedere un sacrificio, tenendoli a lavoro.
Chi lo vuole un vecchio in azienda?
Appunto per questo stavamo lavorando alla staffetta generazionale.
Come quella della Madia?
No, la nostra era destinata al privato. Ma avevo contro le Regioni che erano indifferenti. L’unica che ci ha seguito è stata la Lombardia. Con Assolombarda abbiamo firmato un accordo per combinare domanda aziendale e part time per i lavoratori vicini all’uscita. Speravamo in un patto generazionale, perché se i giovani ci mettono brio, gli anziani hanno dalla loro l’esperienza.
Lo dica alle imprese.
Se una categoria denuncia da vent’anni il degrado non solo economico ma anche civile del Paese, vuol dire che non si può sempre soltanto e sempre accusare la politica e il sindacato. Soprattutto se in questo lasso di tempo si sono scaricati gli oneri pensionistici sulle spalle del pubblico e, di riflesso, su quelle delle generazioni future.
Lei ha colpito i sessantottini.
Non ridurrei il tutto al fatto che ho mandato in pensione più tardi i miei coetanei. Per troppo tempo abbiamo sprecato occasioni e caricato gli oneri sulle spalle della generazione futura. La riforma è un importante riequilibrio economico e giuridico tra le generazioni.
Il Pd vuole cambiarla.
A parte che mi sembra scorretto discutere dei miei successori, ciascuno fa le proprie riforme.
Non si sente offesa?
Non provo niente di particolare e non ci vedo nulla di straordinario. Anche la Merkel, in Germania, ha cambiato idea. Nella vita dei Paesi come in quella dei cittadini le situazioni cambiano. Non mi scandalizzerei se tra un paio d’anni, quando le cose le cose andranno meglio, si decidesse di ampliare le flessibilità di uscita per alcune categorie.
Si contraddice?
Io so di avere chiesto un grande sacrificio agli italiani: continuare a lavorare per salvare l’Italia. Ma nel mio piccolo anch’io ho dovuto sacrificare la flessibilità, che era uno dei punti centrali della mia agenda. È l’unica leva per smettere di pensare soltanto in termini di pensionamento.
Andrà mai in pensione?
Tra quattro anni. Potrei anche continuare a lavorare all’università, ma credo che allora sarò stanca.
I conti dell’Inps reggono?
Qualche mese fa un alto funzionario del Fondo monetario mi ha chiesto se, secondo me, il sistema pensionistico italiano è sostenibile. Gli ho detto che era meglio preoccuparsi dell’economia reale, della disoccupazione e dei redditi.
Monti se n’è preoccupato?
Il Paese non sta soffrendo per quello che abbiamo fatto noi o soltanto per la crisi. Sta soffrendo per quello che subisce da trent’anni.
Il suo bilancio a Roma?
Quella vicenda è stata usata contro di me e contro il governo. Ma resta comunque la riforma, che ha una sua grande importanza. Prima del 2012 tutti i documenti internazionali iniziavano con la formula “L’Italia deve fare la riforma delle pensioni”. Adesso non c’è neanche anche uno che va in questa direzione.
La sua vita è cambiata?
Oggi passo molto tempo in università: faccio lezione, ricevo gli studenti, scrivo, in questo anno ho viaggiato molto. La Banca centrale olandese mi ha invitata come visiting. Sono stata un mese negli Stati Uniti alla George Washington University. Ho tenuto lezioni a Heidelberg al Max Planck institute.
Voglia di fuggire?
Non scapperò mai dall’Italia. La mobilità è un valore e il fatto che mi invitino all’estero è un riconoscimento al mio lavoro. Oltre che uno strumento per essere positiva e superare tutte le cattiverie.
I giovani non avranno la pensione?
Saranno calcolate in base ai contributi versati. Il problema non è la formula pensionistica, ma cambiare spesso lavoro e non avere un reddito adeguato. E non essendoci ampi margini salariali, non si aderisce neppure alla previdenza integrativa.
Servono sgravi fiscali?
Serve il reddito minimo a carico della fiscalità generale. È un principio Basilare in ogni Paese civile. E poco importa se erogato in forma salariale o attraverso il pagamento del secondo pilastro del sistema pensionistico. L’importante è non risolvere il problema facendo altro debito.
Paga il suo piglio azionista?
Non accetto di essere definita rigida. Preferisco definirmi una persona che vuole razionalizzare. Sui contratti a tempo determinato, io ho tolto per prima la causale. Trovo discutibile i continui rinnovi, quell’entri e esci che alla fine non aiuta a capire che rapporto di lavoro c’è. Questo stato di caso riduce la produttività. E senza la produttività calano salari e competitività.
Quella riforma era rigida.
Se avessi mezz’ora di tempo potrei dimostrare il contrario. Perché la mia riforma è composta da due pezzi; la parte del lavoro e l’innalzamento dell’età pensionistica vanno di pari passo, il mio obiettivo era quello di rafforzare l’ingresso nel mondo del lavoro e di rendere meno rigida l’uscita.
Non è che ci sia riuscita.
Perché non ho avuto il tempo. E perché il ministro del lavoro, chiunque sieda su quella poltrona, non ha soldi suoi. Glieli assegnano altri.
La Lega ha raccolto le firme contro la “Fornero”.
Non voglio commentare... Considero i comportamenti di Matteo Salvini molto censurabili.
Per concludere, fu l’ex presidente dell’Inps Mastropasqua a darle i numeri sbagliati sugli esodati?
Non voglio personalizzare. I politici come i giornalisti sono alla ricerca di un colpevole. Il ministero non ha fonti autonome di dati. Dipende dall’Inps per la parte dei dipendenti e dalla Ragioneria per le valutazioni finanziarie. Ma politicamente la responsabilità è del ministro. E io le mie me le sono prese tutte.