Paolo Griseri, Affari&Finanza – la Repubblica 30/6/2014, 30 giugno 2014
ARVEDI, L’UOMO CHE PARLA ALL’ACCIAIO “ORA ALLA CONQUISTA DEL MERCATO CINESE”
L’uomo che chiama l’acciaio per nome ha 77 anni, vive a Cremona e governa un impero con 2.600 dipendenti, 2 miliardi di fatturato e un mol di 180 milioni nel 2012. Soprattutto, nei prossimi due anni porterà in Cina la sua tecnologia innovativa, per l’Italia un primato non da poco. «L’acciaio dice il cavalier Giovanni Arvedi - va rispettato. Ha dei tempi che non possono essere modificati. Se lo tratti bene, diventa un amico fedele. Non tradisce mai». Così, applicando scrupolosamente questi principi, dagli anni Ottanta il cavaliere è diventato leader mondiale nella tecnologia per la produzione di acciaio laminato: «Un sistema innovativo - spiega - che consente di concentrare in 180 metri lineari i macchinari che in un’acciaieria tradizionale occupano oltre un chilometro». Che è come ridurre in poco più di un campo di calcio quel che normalmente starebbe in tre giri di pista dello stadio. «In questo modo - spiega Arvedi - si risparmia tempo ed energia». Non è strano che la tecnologia abbia attirato l’attenzione dei cinesi che di acciaio di buona qualità hanno grande bisogno per sostenere la crescita della loro economia. Nei prossimi due anni a Rizhao, nella provincia cinese di Shandong, nascerà uno dei più grandi centri al mondo per la produzione di acciaio e il governo di Pechino ha scelto la tecnologia Arvedi Esp per realizzarlo. Il sistema produttivo escogitato dal cavaliere di Cremona concentra le fasi di lavorazione: dalla colata si passa direttamente alla laminazione producendo un nastro di acciaio di grande qualità e particolarmente sottile. Due delle cinque linee produttive di Rizhao saranno pronte entro la fine di quest’anno, altre tre arriveranno entro il dicembre 2015. Qual è il segreto di questa tecnologia? «Il segreto? Ci sono 400 brevetti», risponde Arvedi. E spiega che «con l’avvento dell’elettronica e dei microchip è stato possibile sostituire leve e uomini con macchinari. Così si può passare direttamente dall’acciaio liquido al prodotto finito. Tutto in pochissimo tempo e con un notevole abbattimento dei consumi di energia, acqua e componenti soggetti a usura». La tecnologia era stata concepita da Arvedi e messa a punto insieme ai tedeschi della Mannesmann a metà degli anni ’80. «Poi sa come sono i tedeschi? Sono bravi ma pensano di essere i migliori. Così realizzarono gli impianti non secondo le mie indicazioni ma secondo i parametri che loro ritenevano migliori. E infatti non funzionarono». Furono anni difficili. «Mi aiutò l’Avvocato Agnelli », ricorda oggi Arvedi. A risollevare le sorti economiche dell’azienda dell’acciaio arrivarono i francesi di Usinor. Acquistarono il 40 per cento della società: «Fu un intervento importante. Poi, all’inizio degli anni Duemila, ho ricomperato tutto». Quella dell’acciaio è un’autentica passione. La famiglia Arvedi lavora con i metalli da tre secoli. Ma fino alla prima metà del Novecento li ha commerciati. E’ con Giovanni e il fratello Daniele che ha cominciato a produrli. «Nella mia vita ho incontrato un centinaio di acciai diversi, ciascuno con un suo carattere. E ciascuno va trattato con rispetto». Qual è l’amico che preferisce? «Non ho dubbi: il J55N80. E’ un acciaio straordinario. In grado di scendere nel terreno a 7.000 metri di profondità resistendo a pressioni fortissime e alla corrosione di sali e acidi. E’ l’acciaio per i tubi delle trivelle che estraggono lo shale gas negli Stati Uniti. Ogni anno mandiamo oltreoceano 100 milioni di tonnellate di tubi». Una manna. «Ma anche prima dello shale gas J55N80 ci ha dato soddisfazioni. Serviva per le trivelle che scavavano nuovi pozzi di petrolio in Usa dopo il blocco energetico seguito alla guerra del Kippur». J55N80 le sarà simpatico perché le rende molti soldi. «Certo, è un acciaio pregiato. Ma anche quelli più comuni, come l’S355 usato per i cassoni dei camion o il DP 800 che deve essere molto resistente per produrre le benne delle scavatrici sono acciai che danno soddisfazione. Vengono prodotti in grandi quantità e garantiscono una buona fetta del fatturato». Nella gamma dei prodotti di Arvedi ci sono anche gli acciai più malleabili: «Sono gli amici più teneri, quelli con meno carbonio e manganese che servono a produrre lamiere stampate per l’industria dell’auto e degli elettrodomestici ». E qui si apre il capitolo della ex Lucchini di Trieste che Arvedi conta di utilizzare «per produrre banda stagnata e l’acciaio magnetico al silicio per la produzione dei motori elettrici». Le lamelle dei motori elettrici sono realizzate con un acciaio particolarmente duttile un tempo prodotto a Terni prima che i tedeschi della Thyssen trasferissero la produzione in Germania. Così il cavaliere di Cremona conta di «portare in Italia produzioni che oggi la nostra manifattura è costretta ad acquistare all’estero ». Ma la grande scommessa, «il boccone più difficile da digerire», come dice Arvedi, è il salvataggio dell’Ilva di Taranto. «La produzione di qualità a Taranto è essenziale per l’industria manifatturiera italiana». Per rimettere in piedi il più importante polo siderurgico nazionale sono necessari molti investimenti. Lei sarebbe disponibile? «Io da solo non sono certo in grado. Siamo disponibili a entrare in un pool di imprenditori italiani impegnati a rilanciare Taranto». Ma chi potrebbe essere il principale azionista? «Credo sia inevitabile che la quota di maggioranza ce l’abbia una società mineraria». Dunque non italiana. «Eh no. Penso ai francesi e ai tedeschi. Secondo me è più probabile che siano i francesi di Arcelor». Come trascorre il tempo il cavalier Arvedi quando non si occupa di acciaio? «Ho diverse passioni. Una è la musica. Abbiamo finanziato il Museo del Violino a Cremona e una importante stagione concertistica». L’altra, in teoria, è il calcio. «Molto in teoria. Ho acquistato la Cremonese per dovere civico verso la città. Ma la gestione l’ho affidata ad altri, non mi intendo di calcio». La terza passione è l’editoria. Fu Arvedi a intervenire negli anni Ottanta quando lo scandalo P2 decimò la Rizzoli: «Ricordo bene. Misi di tasca mia 145 miliardi nel salvataggio del ‘Corriere’. Ma di questo preferisco non parlare. E’ storia passata. Oggi per me l’editoria è il giornale ‘Mondo Padano’», settimanale di Cremona. Eppure la carta stampata è ancora oggi un chiodo fisso per il cavaliere lombardo. Delle redazioni degli anni ’80 e ’90, dei rapporti con la politica, della Milano di Pirelli e Agnelli, gli sono rimasti ritratti precisi, aneddoti, impressioni indelebili. Ne parla a lungo, poi preferisce soprassedere: «Questi sono ricordi che oggi non contano. Quel che vale è l’acciaio». Beh oggi l’acciaio italiano non attraversa un periodo brillante. E, in generale, l’industria manifatturiera non gode di grande credito nel Paese. Vanno più di moda le produzioni immateriali, i servizi venduti attraverso Internet. Nell’era di Twitter che cosa sarà mai il suo amico J55N80 che scava nelle viscere degli Usa per estrarre lo shale gas? Vuol metterlo a confronto con il fascino di un cinguettio che rimbalza sugli smartphone di tutto il mondo? Il cavaliere di Cremona reagisce duramente alla provocazione: «Lei lo sa che il 40 per cento del Pil italiano viene realizzato dall’industria manifatturiera e da quello che le gira intorno? E lo sa che senza l’acciaio quell’industria si bloccherebbe in pochi giorni?». Ecco perché il gruppo Arvedi vuole partecipare al salvataggio dell’Ilva: «Per mantenere in Italia due laminatori principali, uno a Taranto e uno a Cremona, con la produzione degli acciai inox a Terni». Una rete di produttori di acciaio nazionali. E’ questo il suo progetto? «Questo è uno dei miei progetti. Ma non è il principale, diciamo che starebbe in un occhiello. Il progetto principale è l’esportazione della nostra tecnologia nel mondo. Il successo in Cina, questa è una sfida da titolo ». Ah, la vecchia passione per la carta stampata. Giovanni Arvedi, imprenditore siderurgico di Cremona, visto da Dariush Radpour.
Paolo Griseri, Affari&Finanza – la Repubblica 30/6/2014