Alessandro De Nicola, Affari&Finanza – la Repubblica 30/6/2014, 30 giugno 2014
MA È SEMPRE MEGLIO CHE UN CONDONO “SECCO”
Quando si sente odore di condono fiscale l’opinione pubblica avverte un comprensibile senso di nausea, anche se ora viene ribattezzato voluntary disclosure per farlo sembrare più ganzo (ormai il fiorentino si é riappropriato definitivamente della lingua italiana, tanto vale prenderne atto). Tuttavia, invece di lanciarsi in una serie di invettive è bene capire la situazione nel suo complesso e poi trarne le debite conclusioni. Ci sono alcuni punti da chiarire. Primo punto: il problema principale è il fisco italiano, strano miscuglio di oppressività sia nei metodi sia per il peso che ha sull’economia. Sotto quest’ultimo profilo è bene ricordarsi che le tasse rappresentano più del 44 per cento del Prodotto Interno Lordo e sommandosi agli altri introiti (dividendi, multe, eccetera) portano le entrate a rappresentare il 48 per cento del Pil, al di sopra della media dell’eurozona, ancor di più di quella Ue-28 e assai lontana dalla media Ocse. Ricordiamoci poi che l’Istat calcola da anni il valore dell’economia sommersa intorno al 17-18 per cento del Pil: questa percentuale inamovibile da anni sfida il buon senso, ma l’Istat, come il Bruto shakespeariano, è un’istituzione d’onore. Valutando tutti questi elementi, l’impatto del carico fiscale sull’economia emersa arriva a toccare il 54 per cento, quasi il 60 per cento se sommiamo tutte le entrate. Un peso insopportabile che soffoca l’economia e che tutti, a parole, dicono sia necessario ridurre (e chi scrive pensa a decurtazioni sostanziose).
Qui entra in gioco il tema dell’evasione, stimata negli ormai mitologici 150 miliardi l’anno (18 per cento del Pil = circa 290 miliardi x 0,54 = 155 miliardi). Per combatterla il legislatore ha fatto ripetutamente strame dello Statuto del contribuente, introducendo norme retroattive, presunzioni di colpevolezza e così via. I controlli della Guardia di Finanza (corpo non scevro da problematiche, diciamo) sono spesso curiosi: si parte chiedendo cifre assurde e si transige a cifre 10, 20 o 50 volte inferiori oppure si azzardano interpretazioni giuridiche bizzarre. Potrei citare numerosi casi visti personalmente, ma qualsiasi lettore è in grado di farlo. Questa miscela rende il rapporto con le autorità fiscali così insopportabile che persino lo stesso Befera negli ultimi tempi del suo mandato ha sentito il bisogno di scusarsi con i contribuenti. Ma almeno la lotta all’evasione fiscale sta funzionando? Leggendo il bollettino del ministro dell’Economia e delle Finanze si scopre che le entrate tributarie da accertamento e controllo per il 2013 sono ammontate a 8,2 miliardi di euro. Ora, a parte il fatto che si tratta di un numero scandalosamente basso rispetto alla presunta evasione, la cifra é pure sovrastimata, perché non svela quanti di quei soldi vengono restituiti al contribuente vittorioso nei secondi e terzi gradi di giudizio. E lo Stato perde spesso... Tutto ciò porta alla fame di soldi che suggerisce periodicamente il ricorso a forme più o meno blande di condono come la voluntary disclosure. Bisogna pur dire che non si tratta di una creazione italiana: l’Ocse (Organizzazione internazionale delle nazioni sviluppate) ne ha raccomandato l’adozione nel 2010 e numerosi paesi, tra cui Francia, Germania e Gran Bretagna, l’hanno recepita nel loro ordinamento. In buona sostanza, il contribuente che ha patrimoni non giustificabili, li può dichiarare al fisco e ci paga su le tasse con un’applicazione attenuata di multe ed evitando sanzioni penali. Il patto si giustifica non solo per gli addizionali incassi dell’erario, ma in quanto riporta nella legalità una notevole quantità di capitali che possono essere utilizzati per stimolare l’economia. Anche l’ipotesi allo studio in Italia ricalca le stesse linee guida, ma si concentra sul rientro dei capitali dall’estero. Il possessore e gli altri titolari, a fronte della dichiarazione dovranno pagare le tasse per i periodi di imposta non ancora caduti in prescrizione, gli interessi e sanzioni amministrative ridotte. Viene pure esclusa la punibilità dei reati tributari fatta eccezione per la frode fiscale. Inoltre, se il contribuente non è in grado di dimostrare che i capitali in suo possesso non provengono da attività già tassate, si presume che sia un evasore. Come si vede da questa sommaria descrizione, si tratta di una procedura non assimilabile ad un vero e proprio condono poiché chi non ha assolto i suoi obblighi fiscali paga tutto, salvo uno sconto sulle sanzioni. Però, volendo introdurre una sanatoria di questo genere, si sarebbe dovuta escludere ogni responsabilità penale (come hanno fatto gli altri paesi) ed evitare la solita presunzione di colpa ormai onnipresente nel nostro sistema tributario. Ma era proprio necessario introdurre la voluntary disclosure? Nel Paese dove ogni provvedimento di perdono è perentoriamente dichiarato l’ultimo, come minimo si sarebbe dovuto escludere dal beneficio coloro i quali avevano già usufruito dello scudo di tremontiana memoria o di ogni altro condono. E, a volerla dire tutta, nel paese di indulti, amnistie, prescrizioni, condoni, sanatorie e ogni altro tipo di mezzo che toglie il principio della certezza della pena, persino la sofisticata voluntary disclosure potevamo forse risparmiarcela del tutto. Twitter @aledenicola Il ministero dell’Economia e delle Finanze in Via XX Settembre a Roma.
Alessandro De Nicola, Affari&Finanza – la Repubblica 30/6/2014