Federico Fubini, Affari&Finanza – la Repubblica 30/6/2014, 30 giugno 2014
DUCATI, LTE, GD, NELLA NUOVA FABBRICA LE RELAZIONI INDUSTRIALI SONO STILE MERKEL
La Ducati a Borgo Panigale, alla periferia di Bologna, non ha praticamente nulla di ciò che un tempo era associato all’idea di una fabbrica. All’interno dell’impianto regna il silenzio. Non c’è sporco per terra, né sulle mani degli operai. Ogni fase della produzione e montaggio delle motociclette sembra richiedere più competenza e concentrazione che sforzo fisico o movimenti ripetitivi lungo un’intera giornata. Gli addetti si muovono a ritmo spedito ma mai frenetico, in grande maggioranza hanno fra i trenta e in quarant’anni e parlano pochissimo fra loro durante l’orario di lavoro. Ciascuno sembra troppo assorto nel suo compito, per mettere a punto alcune delle moto più tecnologiche e sofisticate che esistano sul mercato mondiale. Difficile dire se questo sia un ritratto fedele del manifatturiero nel ventunesimo secolo declinato nella versione occidentale, da Paese mediamente anziano, ad alti costi e tassazione ancora maggiore. Ma da qui e altri luoghi simili in Emilia-Romagna inizia a far breccia una rivoluzione nelle relazioni industriali che rischia di prendere di sorpresa quasi tutti: non solo le centrali sindacali nazionali o Confindustria, ma persino il governo di Matteo Renzi nato sotto le insegne dell’innovazione. Qui sta iniziando una transizione che in Germania è arrivata a compimento più di dieci anni fa. È la stessa che negli ultimi tempi hanno affrontato Spagna, Portogallo e Irlanda, Paesi fragili che ora stanno riducendo la disoccupazione molto più in fretta dell’Italia. In Germania l’intero processo fu guidato da un premier socialdemocratico come Gerhard Schroeder; in Spagna o Portogallo è stato invece imposto fra le condizioni per i salvataggi finanziari fra il 2010 e il 2012. In Italia, in questa direzione spingono soprattutto i pochi ma grandi investitori internazionali presenti. A Ducati, tutto sta accelerando in un modo che pochi a Roma avevano previsto e forse neanche adesso vedono arrivare. Questa è un’azienda che scoppia di salute, malgrado tutto. Ha chiuso il 2013 con un profitto operativo sopra al 10% del fatturato, con un nuovo record di più di 44 mila moto immatricolate. Ci è riuscita a dispetto della debolezza cronica dei consumi in Italia, il suo secondo mercato, e un crollo del 25% dello yen sull’euro che mette il vento in poppa a concorrenti giapponesi come Yamaha o Honda. Ora però qualcosa è cambiato. Due anni fa Ducati è passata tramite Audi sotto il controllo di Volkswagen, un gruppo di dodici marchi che ha alcune caratteristiche sconosciute in Italia. Non solo le dimensioni globali, con un fatturato che sfiora i 200 miliardi di euro e quasi dieci milioni di veicoli venduti nel 2013. C’è anche la struttura del governo societario, perché nel consiglio d’amministrazione di Wolfsburg siede anche il sindacato, sulla base di uno scambio: responsabilità e coinvolgimento nella gestione, in cambio di investimenti, lavoro e rinuncia a delocalizzare in Asia o in Europa dell’Est; contratti negoziati a livello delle singole aziende, regioni o impianti, con l’utilizzo massimo delle fabbriche su sette giorni e 24 ore, in cambio di formazione di alto livello e forti premi di produttività in busta paga. La novità è che ora Audi-Volkswagen cerca di esportare il modello tedesco anche a Bologna, e per la verità non si muove in solitudine. Accanto a Ducati, anche altri grandi investitori internazionali stanno proponendo ai lavoratori più investimenti e nuove assunzioni in contropartita a deroghe più o meno importanti dai contratti nazionali. In questa senso (con varianti) si muovono la Lte di Ferrara, controllata dalla giapponese Toyota, gli americani di Philip Morris a Bologna e anche un gruppo globale di proprietà italiana come l’Officina G.D del Gruppo Coesia di Isabella Seragnoli. Non c’è dubbio però che Volkswagen- Audi sia l’investitore che in Italia tenta l’esperimento più audace, con una visione dei processi produttivi dai banchi di scuola alle pause caffè. Il gruppo a Bologna controlla anche Lamborghini ed è ormai a un passo da un accordo sulla cosiddetta «formazione duale» alla tedesca, assecondato dall’assessore all’istruzione (ed economista industriale di scuola prodiana) Patrizio Bianchi. In almeno un istituto superiore del capoluogo, e alla facoltà di Ingegneria, saranno previsti programmi di studio anche con personale delle imprese, alternati a periodi di apprendistato (pagato) a Ducati o Lamborghini. La scuola tecnica e l’università ci guadagnano un aggancio dei corsi ai processi produttivi più aggiornati, gli studenti un affaccio sul lavoro e le imprese la preparazione e selezione degli allievi migliori. Ci sarà un motivo se la disoccupazione giovanile in Italia è al 46% e in Germania sotto l’8%. Poi viene anche la parte difficile del negoziato aperto da Claudio Domenicali, amministratore delegato di Ducati, con la Fiom regionale. Domenicali non cerca giri di parole: «Quindici anni fa per produrre una moto all’estero bisognava spedire un baule di disegni e i modelli fisici dei pezzi - dice -. Oggi siamo in grado di mettere su un file un modello matematico tridimensionale di un prodotto e mandarlo con una email». Significa che se le condizioni non sono convenienti in Italia, Ducati può sempre rafforzare i suoi impianti in Thailandia o in Brasile. Anche per questo il gruppo chiede un aumento di produttività del 15% circa, cioè di valore creato per ogni ora lavorata, con precise procedure sulle pause, una caccia agli sprechi di tempo e una valutazione di ogni singolo addetto o per piccole squadre. Soprattutto chiede agli operai di élite che lavorano all’albero motore, nella parte più costosa dell’impianto, di essere disposti a organizzare i turni per coprire - se serve - notti, sabati e domeniche. Non è uno sforzo da poco. In cambio Domenicali offre investimenti per 250 milioni in cinque anni e nuove assunzioni. A chi è già al lavoro, in perfetto stile tedesco, Ducati promette anche un bonus variabile da 2000 o 2500 euro annui decisi sulla qualità e il risultato aziendale, più un premio produttività basato su una valutazione individuale di ciascuno dei mille dipendenti. L’impegno richiesto in fabbrica sarà più duro, in nome dell’efficienza e del risultato. Ma la disoccupazione, la precarietà, il crollo della produttività e dei salari in Italia non sono mai stati un modello migliore di quello Volkswagen per difendere la giustizia sociale. Quanto a Philip Morris Italia, investirà a Bologna 500 milioni per un nuovo impianto da prato verde da 600 posti (più indotto). Ma anche il gruppo americano esige un contratto di lavoro nel quale c’è una parte di paga che varia sulla valutazione di ogni singolo addetto. Persino il governo Renzi rischia di essere preso in contropiede da questa pressione dei gruppi esteri per passare dai contratti collettivi nazionali ad accordi fatti in azienda per incentivare l’efficienza. Nella delega per la riforma del lavoro non è previsto niente di simile, anche per non affrontare la contrarietà dei vertici di Cgil, Cisl e Uil. Ma ciò che non succede a Roma sta già succedendo nella realtà, benché in maniera difforme. Sulla base di dati dell’Ocse, gli economisti Paolo Manasse e Thomas Manfredi mostrano che l’Italia è un Paese difforme. Ha una delle quote più alte di contratti conclusi su base nazionale (l’85%), malgrado che la partecipazione al sindacato sia bassa nel confronto internazionale (30%). Ma già ora i negoziati dei contratti in azienda sono diffusi in più di un terzo delle imprese del centro-nord e in meno dell’1 per cento delle imprese del Sud. Certo se la dinamica della produttività e l’occupazione in Italia sono fra le più basse in Europa, la causa non va cercata solo nel contratto nazionale. Gli economisti Fadi Hassan e Gianmarco Ottaviano dimostrano in uno studio su vox.eu che l’incompetenza degli imprenditori italiani ha un grande ruolo. Ma l’esempio di Ducati pone una nuova sfida per tutti. Governo Renzi compreso. (ha collaborato Marco Bettazzi) Qui sopra, un momento della produzione nella fabbrica della Ducati a Borgo Panigale L’azienda ha chiuso il 2013 con un profitto operativo sopra al 10% del fatturato, con un nuovo record di più di 44 mila moto immatricolate.
Federico Fubini, Affari&Finanza – la Repubblica 30/6/2014