Federico Rampini, la Repubblica 30/6/2014, 30 giugno 2014
L’HOUSE OF CARDS DELLA DESTRA USA ULTRACONSERVATORI ALLA RISCOSSA
NEW YORK
L’uomo nuovo della destra americana viene dalla serie televisiva House of Cards . La fiction precede la realtà: Kevin McCarthy, che ha appena conquistato la poltrona chiave di capogruppo repubblicano alla Camera (dove la destra è maggioritaria) era davvero un consulente per la celebre serie televisiva con Kevin Spacey come protagonista, nella parte di un politico ambizioso fino alla ferocia, machiavellico, di un cinismo spietato. Ora il suo collega di partito Richard Hudson paragona il compito di McCarthy a quello di un allevatore di coccodrilli: «Attento, li nutri da piccoli, poi quelli ti staccano un braccio». Il primo test per McCarthy: governare la insurgency ( insurrezione) dei neocon. Dilagano nei talkshow come ai tempi del loro massimo potere. Sull’onda del disastro iracheno gli artefici della politica estera di George W. Bush intonano un coro: l’America era più forte, più credibile e rispettata nel mondo, quando c’eravamo noi. Sei uomini e una donna sono la punta di diamante di quest’offensiva. L’ex vicepresidente Dick Cheney e la figlia Liz. L’ex ambasciatore all’Onu John Bolton, a cui si attribuiscono ambizioni presidenziali. L’ex sottosegretario nonché presidente della Banca mondiale, Paul Wolfowitz. E poi i tre teorici più autorevoli del pensiero neocon: Robert Kagan, William Kristol, Richard Perle, riuniti sotto le bandiere di un think tank storico, il Project for the New American Century.
I due Cheney padre e figlia usano il giornale più “organico”, il Wall Street Journal di Rupert Murdoch, per scrivere a due mani una requisitoria durissima contro Barack Obama: «Raramente un presidente americano ha avuto torto così tanto e così spesso, a spese di così tante persone». Wolfowitz accusa Obama di «non prendere sul serio la marcia dei fondamentalisti sunniti su Bagdad». Kristol rivendica che «l’invasione del 2003 fu la cosa giusta da fare». L’ex segretario alla Difesa Ronald Rumsfeld si è già distinto per un libro autobiografico e un documentario dove non c’è un briciolo di autocritica, bensì l’orgogliosa rivendicazione delle avventure militari in cui i neocon trascinarono l’America e tanti alleati occidentali. Nella raffica di attacchi contro la politica estera di Obama, i neocon non fanno mancare niente: questo presidente è accusato di aver “perso” sia la Crimea che l’Iraq, ben presto anche l’Afghanistan e l’Egitto; di non avere capito nulla delle cosiddette “primavere arabe”; di avere incoraggiato con la sua pavidità gli espansionismi russo e cinese. Dalla Siria all’Ucraina fino al Mar della Cina, è un lungo elenco di arretramenti strategici, a cui i neocon imputano un’accelerazione del declino Usa.
L’Iraq resta il tema più dibattuto. I più arditi tra i neocon insinuano che la ritirata delle truppe americane sia stata un errore marchiano, fingendo di dimenticare che fu Bush a deciderne la data: 2011. I più sottili accusano Obama di non aver saputo negoziare con il premier iracheno Al Maliki quelle garanzie politico-giuridiche (immunità per i soldati Usa) che avrebbero consentito di lasciare a Bagdad un dispositivo militare leggero, ma sufficiente e condizionare il governo e impedire la disintegrazione tra fazioni sciita, sunnita, curda. Più in generale i neocon istruiscono un processo all’intera “dottrina Obama” come fu esposta dal presidente nel discorso all’accademia militare di West Point un mese fa. Salutando i cadetti con la constatazione che: «siete la prima generazione di laureati di West Point che non verrà mandata a combattere in Iraq e Afghanistan », il presidente illustrò le sue ricette per un mondo multipolare, instabile e complicato, dove gli interventi militari hanno spesso aggravato le crisi anziché risolverle, e quindi devono essere uno strumento di ultima istanza, da usare solo quando vi sia la certezza di una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti. Parole insopportabili per i fautori di una politica estera imperiale.
Per capire il ritorno di visibilità della squadra di Bush, bisogna guardare alla battaglia politica per il controllo del partito repubblicano, proprio quella che ha in McCarthy un arbitro decisivo. Le correnti del partito sono in fibrillazione perché sentono “profumo di vittoria”. Già oggi il cosiddetto Grand Old Party (Gop) controlla gran parte del potere politico e amministrativo: governa 29 Stati Usa contro i 21 dei democratici; ha la maggioranza dei seggi alla Camera; ha la maggioranza dei giudici costituzionali. Stando ai sondaggi attuali potrebbe fare l’ en plein fra quattro mesi, strappando sul filo di rasoio anche il Senato, alle elezioni legislative di mid-term. Ma quale “anima” del partito repubblicano avrà il controllo di tutto questo potere? Il revival dei neocon è un tentativo di reagire alla loro emarginazione. Solo il 18% degli americani pensa che i costi umani ed economici dell’invasione dell’Iraq nel 2003 siano stati giustificati. Più in sintonia con l’anima del popolo della destra, è un leader isolazionista come Rand Paul che ai neocon riserva parole sferzanti: «Dov’erano le armi di distruzione di massa che loro attribuirono a Saddam? E si dimenticano di averci raccontato che quella guerra l’avevamo vinta già nel 2005?». La vittima collaterale delle polemiche dei neocon rischia di essere Jeb Bush, il fratello di George. Jeb sarebbe un candidato forte per sfidare Hillary Clinton nel 2016, è un moderato, ma qualsiasi polemica che rivanghi i ricordi infausti della presidenza di suo fratello non può che nuocergli.
Come ha dimostrato la caduta di Eric Cantor, l’ex capogruppo repubblicano alla Camera, travolto nelle primarie della sua Virginia e poi sostituito da McCarthy, le truppe in ascesa non sono quelle dei neocon ma quelle del Tea Party. Nelle primarie che selezionano collegio per collegio i candidati alle legislative di novembre, la minaccia viene sempre dal Tea Party, il movimento antitasse, anti-Stato, xenofobo, finanziato dai magnati Charles e David Koch. Il Tea Party ha scarso interesse per la politica estera. I suoi cavalli di battaglia sono temi domestici: in particolare il no alla riforma dell’immigrazione, a quel Dream Act con cui Obama vuole creare corsie di regolarizzazione dei giovani clandestini. Anche un personaggio nuovo e pittoresco che attira l’attenzione dei media, quello Stewart Mills del Minnesota detto “il Brad Pitt della destra”, ignora l’Iraq e fa campagna su valori dell’America profonda, la provincia bianca e bigotta. Mills fu quello che propose, non di rispedire soldati in Iraq, ma di armare gli insegnanti nelle scuole Usa come antidoto contro le stragi.
Federico Rampini, la Repubblica 30/6/2014