Alessandro Ferrucci e Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 30/6/2014, 30 giugno 2014
“LA MIA VITA TRA DARIO, DINO E IL MONNEZZA”
[Intervista a Dardano Sacchetti] –
Vetralla (Viterbo)
Ossimori, paradossi o ricchezza di un uomo: ha scritto fondamentali sceneggiature horror, ma quando racconta ama sorridere, scherzare, cercare e trovare la battuta; è uno dei padri del film poliziesco, tra violenza e pallottole, inseguimenti e ingiustizie, ma si definisce di sinistra e “con padre dirigente comunista”. Dagli anni Settanta ha attraversato i maggiori set italiani; davanti, dietro, intorno la macchina da presa, poi feste, champagne. Capri. New York. Londra. Soldi? Tanti, “se dovevo pagare l’affitto bastava una paginetta con un’idea, chiamavo un produttore, ed erano 500mila lire”. Eppure dal 1972 è insieme alla stessa donna, Lisa, con la quale ha condiviso vita affettiva e passione professionale. Ancora oggi si guardano negli occhi e non si annoiano. Lui è Dardano Sacchetti, 70 anni venerdì scorso, uno dei più bravi e prolifici sceneggiatori d’Italia. “E sono sempre stato un gran rompicojoni”,conunacarrieranatain“unpomeriggiodel1969acasa di Dario Argento”.
Presentato da un amico?
Sono arrivato a lui dopo aver rubato un’agenda telefonica.
Spesa proletaria?
Ma no, la storia era un’altra. Un conoscente di Torino mi contatta e mi chiede se conoscevo Dario. Era disperato, rifiutato dal centro sperimentale e senza una lira. Un mio amico possedeva tutti i numeri di telefono importanti dell’epoca, così in un bar lo distraggo e gli sottraggo la paginetta con il contatto di Argento.
E poi?
Chiamo Dario che ci dà appuntamento per il pomeriggio stesso. Allora era un ragazzo geniale, disponibile, di una simpatia rara. Siamo diventati amici in un quarto d’ora. E ci fece vedere la copia in bianco e nero dell’Uccello di cristallo, film strepitoso, con la fotografia di Storaro. Un bianco e nero da sogno, molto meglio della copia a colori. Temo si sia perso.
Si riferisce al film o all’animo generoso di Argento?
Tutti e due. Dario cambia quando finisce nelle mani di Lucherini, agente molto in voga, che gli plasma la carriera, gli trova le donne, decide gli atteggiamenti, lo rende una star.
Avete mai litigato?
Decine di volte! La più importante fu a causa di uno dei miei soggetti. Lui era partito per il Marocco in cerca di ispirazione, eravamo bloccati su un lavoro complicato, forse sbagliato. Una notte butto giù un’altra idea, poche righe, quando torna gliene parlo. E lui: ‘Gajarda, la porto al produttore’. Il giorno dopo mi dice: ‘Le ha prese, gli piacciono, pretende che sia solo io a firmare, voi non dovete comparire’.
E lì giungono le urla...
Ancora no. Il giorno dopo apro il Messaggero e leggo un’intervista ad Argento nella quale spiega: ‘Ero in Marocco, ho avuto un incubo, mentre pensavo di morire mi è venuto in mente il soggetto del Gatto a nove code’. A quel punto alzo il telefono e lo avverto: ‘A bello, peso venti chili più di te, ora arrivo e te rompo le ossa’. Poco dopo mi richiama il produttore: ‘Tutto un equivoco’, e mi dà un milione di lire.
Una cifra importante. Come l’ha impiegata?
Ho acquistato una giacca di pelle da75mila lire, uno stereo meraviglioso, qualche cena al ristorante e via così.
Lei non è romano, ma di Montenero di Bisaccia.
Sì, con mio padre primo sindaco comunista dell’Italia liberata e sindacalista: doveva diventare segretario nazionale della Cgil dopo Di Vittorio, invece si ammalò e ridusse di molto l’azione.
Anche lei attivista politico?
A quattro anni e mezzo già consegnavo volantini del Pci, mi accompagnava Lino, un gigante di due metri, guardaspalle di papà. Ho smesso nel 1971, quando parto militare e vista la mia storia finisco a Lecce in un battaglione punitivo, ci svegliavano di notte con gli allarmi Nato, a un ragazzo sardo scoppiò la milza.
Oltre la politica, cosa c’era?
Dai sedici ai 23 anni sono andato tutti i giorni al cinema, anche quattro film la volta. Alcune pellicole le conoscevo a memoria, polacche, russe o gli horror spagnoli.
Il suo primo scritto?
A 13 anni ho rielaborato un Giallo Mondadori che mi aveva fatto incazzare: a metà avevo scoperto l’assassino. Poi qualche poesia sull’Unità, teatro e il cinema.
Ha prodotto più di 100 copioni.
Scrivevo soggetti in cinque minuti, l’aspetto divertente erano i produttori: ‘A me questo soggetto non interessa, non piace e non lo capisco. Però è tuo e lo compro, non si sa mai’. Allora era una industria, acquistavano l’opzione a scatola chiusa.
Ha avuto un rapporto molto stretto con i De Laurentiis.
Con tutti e tre, Aurelio era un mio grande amico nonostante un carattere spigoloso: ha sempre avuto un pessimo rapporto sia con il padre che con lo zio, in particolare con Dino.
Perché?
Aurelio adorava Dino, ma Dino non puntava su di lui. Veniva trattato male nonostante sia uno dei pochi in grado di leggere un copione. Aveva grandi ambizioni.
Finite come?
Con l’uscita di Qua la mano nel 1980, campione di incassi. A quel punto il padre indicò la strada: In Italia il salvadanaio è la commedia’.
Agli albori del Cinepanettone. Ma perché avete litigato?
Per 500mila lire. Un pomeriggio d’estate del 1984 stavo per partire con la famiglia, macchina stracarica e bambini sui sedili. Mia moglie ha un dubbio: ‘Hai chiuso il gas?’ Non lo so, risalgo. Appena entro squilla il telefono, era Aurelio: ‘Che stai a fa a casa? C’è un biglietto per te da Fiumicino e tra due ore devi stare a Milano e andare subito all’Hotel Principessa Clotilde: è avvenuto un delitto e devi capire, è una grande storia’. Era l’albergo delle più famose modelle del momento. Ci resto una settimana, allungo 50 mila lire a tutti pur di scoprire la verità. Poi corro a Punta Ala dove mi aspetta Lizzani insieme alle zanzare più grandi che abbia mai visto.
Da sua moglie nessuna protesta?
Abituata. Comunque dopo Punta Ala andiamo a Capri, dieci giorni stupendi, ogni mattina appuntamento in porto, Aurelio aveva affittato un tre alberi di legno, ci volevano tre ore, reali, per uscire in mare. Quindi giro dell’isola, mangiate clamorose, il bagno e indietro. Torniamo a Roma e Berlusconi compra Rete4, saltano i contratti e Aurelio non mi rimborsa i soldi di Punta Ala. Mi avveleno. Perché Aurelio è un principe degli avari, tutti a servizio per la sua gloria, non sopporta qualcuno autonomo.
Lei però ha ceduto a qualche B-movie a sfondo erotico.
Non sono stato io!
È nella sua biografia.
Ma no! Serviva solo la mia firma come sceneggiatore, e per 500mila lire l’ho concessa.
Le “500mila lire” sono una costante.
Esistono sceneggiature che ho scritto e nelle quali non compaio, come per Storia di Anna: l’avevo presentato alla Rai nel 1970 e rifiutato. Dieci anni dopo mia moglie mi chiama: ‘Guarda, in tv trasmettono un film simile alla tua storia’. Ma quale simile! Era quella. Li denuncio.
Chi vince?
Gli avvocati della Rai, ovvio.
Non ha responsabilità neanche per “Alex l’Ariete”, con Alberto Tomba protagonista?
Alt! È la più bella storia che io abbia mai scritto.
Parliamo dello stesso film?
Ma sì, in quel caso la responsabilità è stata del produttore. L’idea era: prendiamo un carabiniere tonto e una donna snob, li ammanettiamo e lui diventa il Bud Spencer della situazione in modo da evitare ogni forma di recitazione, mentre lei deve essere un’attrice sofisticata. Volevo giocare sugli equivoci.
Fino a quando...
Il padre del produttore esordisce: ‘Come regista prendiamo Damiano Damiani perché non lavora e chiede pochi soldi’. Gli rispondo che sono pazzi, che Damiano è una persona stupenda ma che può solo esprimersi su soggetti drammatici.
Vince il produttore.
Poi incontro Damiano e capisco la tragedia: ‘Ho parlato con Tomba, ho capito che è un ragazzo sveglio e che posso farlo recitare’.
Damiani lo conosceva da tempo?
Dagli anni Settanta. Nel 1980 siamo stati così pazzi da avventurarci ad Harlem di notte per ascoltare jazz, il portiere non ci ha voluto neanche chiamare un taxi. Allora non era una situazione tranquilla e i ‘bianchi’ non molto amati.
E invece?
Ci troviamo in un viale con solo case bruciate lungo due chilometri e mezzo, neanche un rumore. Poi vediamo una luce, bussiamo, escono fuori quattro energumeni: era la sede dei musulmani neri. Chiediamo un’informazione, non rispondono. E noi via. Alla fine sentiamo una musica arrivare da sotto terra, scendiamo le scale, entriamo, cala il silenzio: gli occhi rivolti verso noi nonostante i quindici musicisti sul palco. Sembrava un film. Poi un donnone allarga le braccia e ci urla welcome! La musica riparte.
Torniamo ai De Laurentiis, come li ha conosciuti?
Grazie alla lite con Dario e a quell’articolo sul Messaggero. Dino lo legge e mi fa chiamare: firmo un contratto in esclusiva di tre anni da cinquanta milioni. La sera parto soldato.
Un mondo pratico.
Lo era. Negli anni Settanta si rispettava molto la sceneggiatura, eravamo giudicati colti, nessuno metteva in dubbio le nostre idee. Così sono nati i Tonino Guerra. Ma Dino era un personaggio incredibile.
Quanto incredibile?
Una mattina mi convoca a Londra, scendo dall’aereo e mi fa accogliere da autista e Rolls Royce, mi portano da lui. ‘Hai visto che roba? Ma lo sai quale culo era seduto ieri su quell’auto?’ No. ‘Quello di Ornella Muti’. Eravamo ai tempi di Flash Gordon. ‘Ti puoi fermare fino a domani mattina?’ Va bene. Invece di una ‘mattina’ mi ha trattenuto sette mesi per collaborare con tre sceneggiatori americani.
Si è sentito schiacciato da Hollywood?
Neanche per sogno. Un giorno accompagno uno dei tre americani al festival del fantastico di Londra e lì scopro che la serata d’onore era dedicata a uno dei miei film, Shock, trasmesso per sette anni consecutivi. Ero considerato una star.
Va bene, ma sul piano professionale cosa nasce?
Dovevo scrivere Flash Gordon 2, ma il primo va male quindi niente. Poi muore Federico, figlio di Dino: cade con l’elicottero in Alaska e lui si chiude in una stanza per sei mesi. Mentre la Mangano si ammala.
Conosceva bene Federico?
Ragazzo stupendo, soffriva i contrasti tra i genitori. La Mangano era molto poetica, Dino più concreto, magari rozzo. Al figlio spiegava: ‘Ricordati che un produttore deve stare sempre a cazzo duro’.
La Mangano era una donna cupa?
No, come una donna affascinante. Una sera a New York, in mezzo a un ristorante, si alza in piedi e per scommessa solleva la gamba sopra la spalla della figlia. E aveva cinquant’anni! Che stacco di coscia.
Lei ha creato i personaggi di Tomas Milian.
Un grande, affascinante, non ti nascondeva nulla. Veniva da me e poi: ‘Questa battuta non la posso dire, ci sono troppe esse, quando scrivi ti devi rendere conto di chi le pronuncia.
Spesso Milian viene descritto come un uomo contraddittorio, anche sul piano sessuale.
Ambiguo in tutto, cresciuto con padre che quando aveva 12 anni si infila una pistola in bocca e si spara. Quel padre lo descriveva come un uomo che puzzava di ‘tabacco, coglioni e caserma’. Comunque Tomas era bellissimo e finì nel giro dei cineasti gay anche se non gli piacevano.
Milian ha affrontato varie fasi professionali.
Fu decisiva la stroncatura di un critico teatrale dopo uno spettacolo a Spoleto: ‘Questa dizione sudamericana non si può sentire’. Così viene emarginato nonostante ruoli importanti con Visconti e altri registi. Torna grazie ai polizieschi dove si diverte, fa i soldi e scopre che la gente lo ama. Ma odiava il Monnezza, lui è un nobile d’animo.
Nobile e contraddittorio.
Persona fragile, raffinata, con un ego disturbato. L’ho conosciuto in Squadra volante e lì aveva una storia con la sarta, donna bruttissima e di circa 70 anni. Lui si giustificava: ‘Non puoi capire, per lei sono Dio, impazzisce per me’.
C’è un attore per il quale le sarebbe piaciuto scrivere?
Non avevo quasi mai rapporti con loro, mi chiedevano e producevo.
Neanche con Maurizio Merli? Erano vere le sue tendenze di estrema destra?
No, era uno che temeva di non essere un grande artista e per compensare iniziò ad assumere atteggiamenti forzati, non usciva mai dal personaggio. Voleva sempre dimostrare che poteva schiantare tutti.
Si sente dimenticato?
No, va bene così. Ho chiuso nel 1992 con Mani pulite.
Cosa c’entra Tangentopoli?
All’epoca avevo contratti da 900 milioni con la Rai, ma saltano tutti. Fino a quando nel 1993 riprendo i contatti, ma il funzionario mi chiede: ‘In che rapporti sei con il mio capo ?’ Ma io non so neanche chi è il tuo capo. ‘Allora non puoi lavorare’. Arrivederci e grazie. Da quel momento in poi la Rai è diventata una televisione di cordate e io non ne voglio far parte. Io non mi prostituisco. Mi tengo il mio caratteraccio di sempre, felice e senza rimpianti.
Lo salutiamo tra ulivi, cani, ricordi. Ci stringe la mano e sorride. Sembra un uomo che è stato in grado di coltivare una grande fortuna: quella di essere rimasto fedele agli ideali di gioventù.
Alessandro Ferrucci e Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 30/6/2014