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 2014  giugno 30 Lunedì calendario

“IO, SPUDORATO PER CERCARE LA VERITÀ”

[Intervista a Luciano Ligabue] –

A 54 anni, Luciano Ligabue ha pareggiato i conti: ha trascorso tanti anni da musicista («Così dice la mia carta d’identità, ma non riesco a considerarlo un mestiere») quanto è durata la sua vita precedente. A 27 anni, 27 anni fa, è salito per la prima volta su un palco e ha capito subito che non avrebbe più voluto scendere.
«Ma era alto una decina di centimetri, buttarmi giù non fu difficile. Ancora oggi, però, non ho capito perché non si può stare tutti i giorni sul palco». In questo 2014, di giorni sul palco ne trascorre tanti: in primavera ha suonato nei piccoli palasport, tra maggio e giugno ha riempito due volte l’Olimpico di Roma, San Siro a Milano e lo stadio di Catania. Sabato 12 riprende il giro da Padova, per poi toccare Firenze, Pescara e Salerno e a settembre Trieste, Torino (il 9, sarà la sua prima volta all’Olimpico), Bologna e Bari.
Come sta andando?
«Siamo francamente felicissimi. Abbiamo un tour che funziona bene e siamo orgogliosi che tutto quello che si vede e si sente sia fatto da italiani. L’altro giorno a Maio (Claudio Maioli, da sempre il suo manager, ndr) hanno chiesto quanto c’è voluto per fare questo palco e lui ha risposto: venticinque anni. È vero».
Questo concerto riassume tutta la tua carriera?
«È che le scelte comportano un po’ di incoscienza, impossibile da avere senza l’esperienza. Uno schermo semicircolare di 180 gradi? Se non l’ha mai fatto nessuno, mi dicevano, un motivo ci sarà. Ci abbiamo provato e ora abbiamo una struttura che permette a tutti di vedere alla stessa maniera e di ascoltare la medesima qualità di suono. Abbiamo reso democratico il concerto e stiamo su un palcoscenico non più rintanati, ma esposti verso la gente».
Una metafora.
«Siamo legati al mio ultimo album Mondovisione, in cui c’è molto di me, della mia famiglia e delle mie opinioni. Gli stadi ti regalano l’epica ma ti allontanano dai corpi e un megaschermo curvo di 180 gradi è il tentativo estremo di essere più vicini».
Cosa si vede da lassù?
«Dipende. Adoro l’Olimpico, ma lì le curve sono lontane e mi devo concentrare sulle facce delle prime file. A San Siro c’erano più luci, vedevo bene anche il terzo anello, ed è stato magico. Uno stadio che si muove energeticamente è impressionante. C’è un coinvolgimento che diventa spettacolo, tutto per me. Ho queste sensazioni d’insieme e ne godo, ma ho sempre bisogno di incontrare le facce».
Perché?
«Odio parole come pubblico, generazione, giovani. Mi importano gli individui e l’incontro tra una canzone, chi in quel momento la canta e la reazione che ognuno ha, a modo suo».
Nel concerto fa cantare due o tre canzoni alla gente.
«Per dire che la musica ha ancora il potere di farsi imparare a memoria. Mio figlio non studia, però le canzoni le impara».
Anche le sue?
«Le parti di chitarra. Lo fa con pudore perché ha 16 anni e gli piace l’heavy metal. Con questo album, non so cosa sia scattato, lo sento spesso suonare i miei pezzi».
Sullo schermo appaiono le fotografie dei suoi genitori e di lei ragazzo: è nostalgia o un’esigenza di verità?
«La canzone è Per sempre, parla dei miei genitori: ero perplesso, ho lasciato decidere a mia madre. Le ho detto: Rina (non l’ho mai chiamata mamma, si chiama Rina Iotti, in passato l’ho chiamata Iotti), ma se dovessi mettere foto tue e di Giovanni (mio padre, lo chiamavo Giuanin) e casomai ci sono anch’io? Lei mi ha solo chiesto: è un bello schermo? Sono contento di averlo fatto, le foto hanno un impatto emotivo e un sapore chiaro, evidente di come questo paese è anche stato. La Rina le ha viste, ne è orgogliosissima: Stiamo così bene, siamo così belli».
Le sue canzoni sono storie o autobiografia?
«Ho fatto i primi tre album mandando avanti i personaggi. Poi dal loro sono passato al noi e infine all’io. Ho stretto un patto con chi mi ascolta: mi espongo, vi dico come la vedo, la sento, come ho vissuto. Su questo potete contare, posso contare su di voi?».
Hai mai analizzato le ragioni del suo successo?
«Le mie canzoni sono sentimentali. Lo so che è un aggettivo considerato “loffio”, ma per me non lo è. Più che l’idea, mi interessa il sentimento, lo stato d’animo che ha originato l’idea e la porta a spasso per il mondo. Chi entra a contatto con me mi accetta o mi rifiuta sulla base della sintonia emotiva. Non funziono su un piano intellettuale, se sei in sintonia le mie cose ti piacciono, altrimenti le rifiuterai».
Non è che da giovani si tende a fare i duri e poi si allentano le difese?
«In parte sì, ma io non mi sono mai preoccupato di essere rock. Fin dall’inizio volevo fare musica energica e spudorata nei sentimenti. Balliamo sul mondo, se la riduci ai minimi termini, è una canzone su uno che vuole andare a letto con una donna. Tutto il resto, tutto quello che c’è sopra, sono io: la musica è necessaria per trasferire energia e spudoratezza, è il bisogno di spostare l’idealismo sentimentale su ogni fatto della vita. È ricerca di intensità (venivo da anni di lavoro come ragioniere, ne avevo un certo bisogno). È una canzone molto importante per me, è stato il primo successo e il biglietto da visita. Già allora capivi al volo se avevo senso per te seguirmi oppure no».
Curioso che parli di spudoratezza: sembra una persona piena di pudori.
«Passo per riservato perché non sono mondano e dei miei sentimenti mi piace parlare attraverso le canzoni, i film, i libri. Ma la spudoratezza mi piace perché ha a che fare con il rito del concerto, l’unico luogo in cui possiamo cantare, stonare, ballare, alzare le braccia, abbracciarci, piangere, ridere in pubblico senza vergognarci. Io la spudoratezza la vedo, quando sono sul palco. Ha a che fare con la verità».
Il successo è una motivazione?
«È un parametro importante. Sono stato fan della canzone d’élite, mi sono sentito anch’io uno di quelli che capivano cose che il mondo non capiva. Come autore, volevo essere il nuovo De Gregori, ma era una posa. Dopo un sabato sera mio un po’ particolare, ho scritto una canzone semplice, essenziale, anche nella parte di racconto. Era Sogni di rock’n’roll, e tutte le canzoni che scrivo sono parenti di quella: parlo delle cose che conosco, produco il mio punto di vista nel contesto di un’esperienza vissuta fino in fondo. Cercando di ricordare che le canzoni nascono come riduzione del melodramma e in quella chiave devono essere scritte».
E il rock’n’roll?
«In Mondovisione c’è Con la scusa del rock’n’roll, detto rocchenroll, all’italiana: parla di un ultracinquantenne che capisce che quello è un bellissimo pretesto per essere spudorati fino in fondo, per urlare come la pensi, per essere sfacciato. Non mi sono mai ritrovato nell’iconografia del rock’n’roll, ma nella sua spudoratezza sì. Il rock’n’roll è un pretesto bellissimo: siamo ancora qui a celebrarlo insieme».

Piero Negri, La Stampa 30/6/2014