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 2014  giugno 30 Lunedì calendario

I RIFIUTI IN ITALIA E NELL’UE

Secondo l’ultimo Rapporto Ispra (2013), la produzione nazionale dei rifiuti urbani nel 2011 è stata di 31,4 milioni di tonnellate (-3,4% rispetto al 2010, ovvero circa 1,1 milioni di tonnellate) e nel 2012 è sceso a circa 30 milioni di tonnellate (un ulteriore calo
di 1,4 milioni di tonnellate, ovvero -4,5%). La riduzione complessiva, nell’ultimo biennio, è quindi pari al 7,7% corrispondente, in termini assoluti, a 2,5 milioni di tonnellate.
In valore assoluto, il dato 2012 di produzione dei rifiuti urbani si attesta a 13,7 milioni di tonnellate nel Nord, a 6,7 milioni di tonnellate nel Centro e a 9,5 milioni di tonnellate nel Mezzogiorno. Relativamente alla produzione pro capite
si osserva, tra il 2010 e il 2011, una riduzione a livello nazionale di 8 kg per abitante per anno, corrispondente a
un calo percentuale dell’1,5%.

Stando sempre al rapporto Ispra 2013, il 49% dei rifiuti urbani finisce in discarica, il 17% viene incenerito tramite termovalorizzatori, il 34% viene compostato o riciclato.
Più nello specifico rispetto al 2011 c’è stato un calo dell’11,7%, circa 1,5 milioni di tonnellate, di rifiuti finiti in discarica, dato che sembra dovuto essenzialmente alla riduzione della produzione più generale. Il Centro Italia ha la peggiore performance (56% dei rifiuti in discarica) e supera di poco il Sud (51%), mentre il Nord è molto al di sotto della media nazionale (22%).
Le discariche attive nel nostro Paese nel 2012 erano 186: 79 al Nord, 66 al Centro e 41 al Sud. La regione col maggior numero di impianti è l’Emilia Romagna (18), seguita da Piemonte (16), Sicilia, Toscana e Trentino Alto Adige (14). Nel 2012 la regione che ha smaltito in discarica le minori quantità dei rifiuti urbani prodotti è il Friuli Venezia Giulia (7%), seguita dalla Lombardia (8%) e dal Veneto (11%). Ancora troppe le regioni del Sud sopra l’80%, e in particolare, il Molise (105%, ma il 60% proviene dall’Abruzzo), la Calabria (81%) e la Sicilia (83%). Dopo la stretta imposta dalla normativa europea (risalente al 2003) sono state chiuse 288 discariche, di cui 229 impianti al Sud (circa l’80%), 43 al Nord e 16 al Centro.
L’Ispra ha sottolineato come tra i problemi di questa forma di smaltimento c’è il rischio che più della metà dei rifiuti (53%) vengono smaltiti senza esser sottoposti a pretrattamento (cosa che per esempio accadeva anche a Malagrotta, dove dalle indagini emerge che vi finivano anche quote di rifiuti differenziati). Questa situazione arriva a superare il 70% in Valle d’Aosta, Liguria, Trentino Alto Adige, Marche, Campania e Piemonte; si va oltre il 50% in Lazio, Basilicata, Veneto, Sicilia, Calabria, e Toscana. I valori pro-capite di smaltimento in discarica più elevati sono in Sicilia (404 kg/abitante), Molise (424 kg/abitante), Umbria (330 kg/abitante), Valle d’Aosta (332 kg/abitante), Calabria (356 kg/abitante), Lazio (379 kg/abitante), Liguria (388 kg/abitante). La regione migliore, sotto questo aspetto, è il Friuli Venezia Giulia.

La più grande discarica in Europa era Malagrotta, grande 250 ettari circa, (quella che ha servito Roma, Fiumicino e il Vaticano per 30 anni) e chiusa il 1 ottobre del 2013 dopo una sfilza di proroghe, deroghe allo smaltimento, e alcuni commissari straordinari di governo messi lì per scongiurare l’emergenza rifiuti nella Capitale.

Per il resto in Italia il 16,9% dei rifiuti urbani finisce nei termovalorizzatori. I rifiuti così bruciati sono aumentati, tra il 2010 ed il 2011, dell’1,4%, mentre sono calati nel 2012 (-3,7%) per via della diminuzione della produzione generale dei rifiuti. Sul territorio italiano ci sono 53 termovalorizzatori, per lo più sono vecchi e quindi più inquinanti: più di otto su dieci hanno oltre dieci anni di vita. La maggior parte è dislocata al Nord e solamente 9 al Sud: 13 sono in Lombardia, che è anche l’unica regione ad avere due termovalorizzatori di potenza superiore ai 100 MW (Milano e Brescia). 9 in Emilia Romagna; 4 nel Veneto; 2 in Piemonte; 1 in Friuli e in Trentino. Il Centro in totale ha 14 termovalorizzatori: 9 in Toscana; 3 nel Lazio; 1 in Umbria e 1 nelle Marche. Infine il Sud: 3 in Calabria; 2 in Puglia e 2 Sardegna; 1 in Campania e 1 in Sicilia.

Il riciclaggio invece ha raggiunto il 34,4% dei rifiuti urbani; un miglioramento dovuto all’incremento della raccolta differenziata che arriva al 37,7% (nel 2011).

Per quanti riguarda l’Unione Europea invece l’ultimo rapporto Eurostat relativo ai dati raccolti nell’anno 2011, ogni anno un cittadino europeo mediamente produce 503 kg di rifiuti, di cui il 37% è finito in discarica, il 23% incenerito, il 25% riciclato e il 15% compostato.
Rispetto al 2001 Eurostat sottolinea un certo miglioramento delle percentuali medie europee (che si attestavano su un 56% di rifiuti in discarica, 17% inceneriti, 17% riciclati e solo il 10% compostati). Il paese europeo che produce più rifiuti pro-capite è, sorpresa, la Danimarca: 718 kg di rifiuti a cittadino prodotti nel 2011, seguita a ruota da Lussemburgo, Cipro ed Irlanda, con valori tra i 600 e i 700 kg pro-capite. Sul terzo gradino del podio, nel range 500-600 kg pro-capite, si trovano Italia, Germania, Austria, Paesi Bassi, Spagna e Malta; L’Italia in particolare ha prodotto 535 kg pro-capite di rifiuti (solo 32 kg sopra la media europea).
Sul compostaggio dei rifiuti l’Austria primeggia su tutti gli altri: il 34% dei rifiuti prodotti dal paese di lingua tedesca viene correttamente compostato, una percentuale di gran lunga superiore alla media europea e che denota una visione d’insieme del problema smaltimento decisamente più virtuosa che altrove. Al secondo posto per la percentuale di compostaggio ci sono i Paesi Bassi (28%); medaglia di bronzo per Belgio e Lussemburgo (20%).
Uscendo dall’Unione europea il caso svizzero è clamoroso: 0% di rifiuti smaltiti in discarica (689 kg pro-capite l’anno), il 50% viene incenerito, il 35% viene riciclato e il 15% compostato.

Un rapporto della Banca Mondiale del 2012 ha messo insieme molti dati sulla produzione e la gestione dei rifiuti solidi urbani (municipal solid waste, MSW). L’Economist ha visualizzato in un grafico quanti chilogrammi di rifiuti per abitante vengono prodotti ogni giorno nei diversi paesi del mondo.
Il totale mondiale prodotto dalla popolazione urbana – la stragrande maggioranza dei rifiuti prodotti – è di 1,3 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi l’anno, ovvero 1,2 chilogrammi al giorno per ogni abitante delle città. Metà circa sono prodotti nei paesi dell’OCSE. Le previsioni sono che la quantità totale cresca fino a 2,2 miliardi di tonnellate entro il 2025, con la Cina che triplicherà circa la sua quantità (da 520 milioni di tonnellate a 1,4 miliardi). L’Italia produce circa 89.000 tonnellate di rifiuti al giorno, 2,23 chilogrammi a testa (considerando solo la popolazione urbana, circa 40 milioni di persone), con la previsione di una lieve riduzione (86.500 tonnellate) entro il 2025 [Il Post 8/6/2012].

DISCARICA
La discarica di rifiuti è un luogo dove vengono depositati in modo non differenziato i rifiuti solidi urbani e tutti i rifiuti provenienti dalle attività umane.
La normativa italiana prevede tre diverse tipologie di discarica:
• Discarica per rifiuti inerti
• Discarica per rifiuti non pericolosi (tra i quali i Rifiuti solidi urbani, RSU)
• Discarica per rifiuti pericolosi (tra cui ceneri e scarti degli inceneritori)

Secondo le disposizioni dell’Ue, «l’uso delle discariche per il rifiuto indifferenziato deve essere assolutamente evitato». L’Unione Europea ha tra l’altro stabilito, con la direttiva 99/31/CE, che in discarica debbano finire solo materiali a basso contenuto di carbonio organico e materiali non riciclabili: in sostanza, dando priorità al recupero, la direttiva prevede il compostaggio e il riciclo quali strategie primarie per lo smaltimento dei rifiuti.
I residui di molti rifiuti, soprattutto di RSU organici, restano attivi per oltre trent’anni e, attraverso i naturali processi di decomposizione anaerobica, producono numerosi liquami (percolato) altamente contaminanti per il terreno e le falde acquifere.
Poiché i tempi di degradabilità di molti materiali indifferenziati solitamente conferiti in discarica (per esempio plastica e rifiuti pericolosi) sono lunghissimi, tracce di queste sostanze potranno essere presenti fino a 1.000 anni dopo la chiusura della discarica stessa: da qui l’importanza di differenziarli.

È scientificamente provato che i rifiuti in discarica causano emissioni ad alto contenuto di Ch4 e Co2, due gas serra. Una moderna discarica deve quindi assicurare la presenza di sistemi di captazione di tali gas (in particolare il metano, che può essere usato anziché disperso in atmosfera). Le emissioni di gas possono essere ridotte o eliminate mediante tecniche costruttive specifiche e con il pre-trattamento dei rifiuti: in particolare la raccolta differenziata della frazione umida e di tutto quanto è riciclabile.
Una discarica moderna deve essere realizzata secondo una struttura a barriera geologica in modo da isolare i rifiuti dal suolo e in grado di riutilizzare i biogas prodotti come combustibile per generare energia. Se la discarica è progettata e costruita correttamente, i rifiuti devono comunque rimanere sotto osservazione per almeno 30 anni dopo la sua chiusura. Nel frattempo l’area è utilizzabile per altri scopi (in genere il terreno superficiale viene utilizzato per la piantumazione).

Il biogas è il prodotto finale della degradazione microbica della materia organica in assenza d’aria (anaerobica) che si verifica all’interno di una discarica. Il processo di degradazione si svolge in diverse fasi, durante le quali la sostanza organica viene prima ridotta in componenti minori e successivamente trasformata in biogas, un gas composto prevalentemente di metano ed anidride carbonica. Il biogas è una fonte di energia pulita e rinnovabile. Una tonnellata di rifiuti può arrivare a produrre, durante tutto il processo di decomposizione, fino a 250 metri cubi di biogas.

• Il percolato, liquido che si genera in seguito a processi di lascivazione e fermentazione all’interno di una discarica, viene estratto da pozzi di captazione attraverso pompe ad immersione poste all’interno dei pozzi stessi. Una corretta gestione prevede il controllo mensile del percolato estratto. Una volta estratto, il percolato viene raccolto in cisterne di stoccaggio e successivamente inviato presso impianti autorizzati al suo smaltimento.
• In una moderna discarica, a protezione delle falde acquifere è previsto un sistema di monitoraggio costituito da pozzi piezometrici posti lungo il perimetro della discarica.
• Il biofiltro è una sorta di filtro di grandi dimensioni, riempito di compost e corteccia vegetale, utilizzato per il trattamento delle emissioni gassose provenienti dagli impianti di selezione e, soprattutto, dagli impianti di biossidazione (impianti di trattamento del rifiuto organico).

TERMOVALORIZZATORE
Il termovalorizzatore è di fatto un inceneritore di rifiuti in grado di sfruttare il contenuto calorico dei rifiuti stessi per generare calore, riscaldare acqua ed infine produrre energia elettrica. Si distingue quindi dai vecchi inceneritori che si limitavano alla sola termodistruzione dei rifiuti senza produrre energia. L’impiego dei termovalorizzatori sembra essere una parziale via di uscita dal problema delle discariche ormai stracolme e una opzione per diversificare i processi di eliminazione dei rifiuti solidi urbani (RSU). Pur essendo molto meno inquinanti rispetto ai vecchi inceneritori, i termovalorizzatori non eliminano in ogni caso l’emissione di diossine nei fumi di scarico dispersi nell’atmosfera circostante. Un fatto su cui concordano ormai tutti, costruttori, medici e tecnici. Basti pensare che non esiste una soglia minima di sicurezza per le diossine e possono essere nocive per l’uomo a qualsiasi livello di assimilazione (US Environment Protection Agency 1994). Tuttavia, se il funzionamento dei termovalorizzatori è gestito in modo corretto l’impatto ambientale potrebbe essere minimizzato dalla presenza di filtri, dal corretto incenerimento dei rifiuti consentiti e dai controlli dello Stato. Molte capitali europee (es. Parigi) hanno i propri termovalorizzatori nelle immediate vicinanze delle grandi città.
Secondo la legge Ronchi bisognerebbe quanto più possibile recuperare materiali ma allo stato attuale si premiano i processi che impediscono il recupero dei suddetti materiali. La termovalorizzazione per assolvere al suo compito in maniera ottimale dovrebbe non precedere bensì seguire un processo accurato di raccolta differenziata che preveda ci si informi dalle industrie sulle caratteristiche che deve avere la materia recuperata per poter essere utilizzata come materia prima nei cicli produttivi (separando accuratamente il vetro dalla plastica, dalla carta, dall’alluminio, etc). Anche la materia destinata ai termovalorizzatori (le cosiddette ecoballe) dovrebbe avere precipue caratteristiche tali da scongiurare quanto più possibile un eventuale rilascio di sostanze nocive nell’ambiente, ma questo passaggio purtroppo in alcuni casi non avviene ancora con la necessaria trasparenza e accortezza. La raccolta differenziata consente di recuperare materiale da inviare al riciclaggio e agevolare la selezione e la lavorazione dei rifiuti. Il termovalorizzatore non brucia qualsiasi rifiuto bensì soltanto CDR (combustibile da rifiuto) composto dalla parte secca del classico RSU (rifiuto solido urbano, ossia il nostro sacchetto dell’immondizia). Questa parte secca è ovviamente composta da legno, carta, cartone, panni, stracci e tutto ciò che ha un potere calorifico abbastanza alto da poter garantire il corretto funzionamento dell’impianto di termovalorizzazione. I rifiuti umidi non bruciano, quindi non sono adatti ad essere smaltito negli inceneritori e devono necessariamente essere stoccati nelle discariche.


RACCOLTA DIFFERENZIATA
Dall’ultimo rapporto Istat nel 2012 la raccolta differenziata in Italia è arrivata al 34,9% dei rifiuti urbani, in aumento dell’1,4% rispetto al 2011. A favore della gestione eco-sostenibile dei rifiuti urbani, nel 2012 104 capoluoghi dispongono di uno specifico regolamento comunale; 61 amministrazioni hanno previsto almeno un’agevolazione verso le utenze domestiche che effettuano l’autocompostaggio per l’utilizzo domestico come fertilizzante degli scarti organici dei rifiuti urbani; in 107 comuni è previsto il ritiro dei rifiuti ingombranti su chiamata, in 104 è presente e funzionante almeno un’isola ecologica. In 99 capoluoghi è attivo un servizio di “raccolta porta a porta”, almeno per parte delle utenze e delle tipologie di rifiuto.

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I dati dell’ultimo rapporto dell’Anci-Conai sulla raccolta differenziata in Italia non sono del tutto positivi. Pur registrando lievi incrementi in molte zone del nostro Paese, il rapporto mette in luce due aspetti poco esaltanti: l’Italia è spaccata in due e l’incremento della raccolta differenziata è rallentato in modo preoccupante.
Ma cominciamo dai dati oggettivi. Il tasso di raccolta differenziata rilevato nell’anno 2012 è stato del 34,9%, ma questo dato, secondo i parametri europei, dovrebbero superare il 50% entro il 2020. Mentre negli anni precedenti il numero dei Comuni che avevano avviato un buon sistema di raccolta differenziata aumentava a buon ritmo, l’incremento dal 2011 al 2012 per quanto riguarda il tasso di riciclo è stato di appena l’1,3%. Altro dato preoccupante è che, ancora una volta, l’Italia risulta spaccata in due. La parte settentrionale del Paese, più precisamente il Nord-Est, infatti risulta avere già raggiunto l’obiettivo europeo grazie a quasi il 55% di tasso di raccolta differenziata. Lo stesso tasso nel Meridione invece si ferma ad appena il 25%. A dimostrazione di questo dato c’è anche la constatazione del fatto che su 20 Regioni italiane, solo 7 hanno superato il tasso del 50%, e sono quasi tutte del Nord. Si tratta di Piemonte, Val d’Aosta, Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia, a cui si aggiunge la Sardegna, unica Regione appartenente al Centro-Sud.
Prendendo in considerazione soltanto i singoli Comuni sopra i 10 mila abitanti, la situazione non cambia. Solo il 25% ha raggiunto l’obiettivo, e meno della metà sono al Sud. Queste percentuali non sono inutili. L’obiettivo del 50% entro il 2020 non è un mero capriccio del nostro Paese o della Comunità Europea, ma uno dei parametri obbligatori stabiliti da Bruxelles. Se l’Italia non dovesse rispettarlo si aprirebbe una procedura d’infrazione, con tanto di multa che saranno i cittadini a pagare.

IL RICICLO NON CONVIENE
Un dossier del luglio 2013 di Esper realizzato per conto dell’Associazione comuni virtuosi mette in discussione l’intero sistema italiano della raccolta e del riciclo dei contenitori. Scrive Fabio Tonacci su Repubblica: «Non solo barattoli di vetro e plastica, ma anche brik di cartone, lattine di alluminio, scatole in legno e acciaio. Sistema che ha il suo baricentro nel consorzio nazionale Conai, ente privato senza scopo di lucro nato con il decreto Ronchi del 1997. Analogo a quelli esistenti in Francia e Spagna, ma molto meno vantaggioso per le nostre amministrazioni locali. Esper ha spulciato le relazioni di bilancio consuntivo 2012 del Conai e dei 6 consorzi di filiera che vi aderiscono. Viene fuori che su 813 milioni di euro di ricavo complessivo nel 2011, solo 298 milioni sono stati riconosciuti ai comuni. “È appena il 37 per cento — si lamenta Ezio Orzes, uno dei curatori della ricerca e assessore all’ambiente di Ponte alle Alpi dove la raccolta differenziata è al 90 per cento — quando in Francia la stessa quota supera il 92, contribuendo così a migliorare il servizio offerto dagli enti locali ai cittadini. Perché così poco in Italia? E dove va a finire il resto?”. Stando alle cifre riportate, un comune italiano che consegna ai centri Conai una tonnellata di carta ottiene un assegno da 42 euro, contro i 179 della Francia, i 108 del Belgio, i 135 del Portogallo. Stessa disparità per la plastica: 291 euro a tonnellata in Italia, 596 in Francia, addirittura 782 in Portogallo. Idem per l’alluminio: 443 euro da noi, 605 in Belgio. Va meglio con il vetro: 39 euro a tonnellata, 38 euro in Francia (ma 47 in Portogallo). Dunque un sindaco italiano che investe risorse pubbliche nell’organizzazione della raccolta differenziata vede rientrare meno soldi che il collega francese, portoghese o belga.
Conviene spiegare i meccanismi del sistema consortile Conai, riconosciuto a livello internazionale come uno dei più efficaci: l’anno scorso su 11 milioni di tonnellate di imballaggi finiti nel cestino ne sono stati riciclati 7,1 milioni, il 63,9 per cento. Le filiere del riciclo di carta, vetro, acciaio, legno, alluminio e plastica si alimentano economicamente con la vendita all’asta di una parte dei materiali (nel 2011 il ricavo è stato di 221 milioni di euro) e con i contributi ambientali, i cosiddetti Cac, che ogni produttore o importatore di merce imballata deve versare per legge al Conai (592 milioni di euro nel 2011). “I contributi dovrebbero servire per disincentivare la produzione di contenitori inquinanti — spiega ancora Orzes — invece quelli in vigore in Italia sono i più bassi d’Europa, quattro volte inferiori rispetto alla media”. Il confronto con l’estero, ancora una volta, ci vede in difetto. In Francia per una tonnellata di carta e cartone prodotta si versano 160 euro, in Italia appena 6. Per l’alluminio il contributo medio nella Ue è di 174 euro a tonnellata, da noi 45 euro». [Fabio Tonacci, la Repubblica 1/7/2013]