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 2014  giugno 29 Domenica calendario

DA DE CHIRICO E PASOLINI ALLA R4 DI MORO: MA ORA CON LA FICTION SONO FELICE

[Intervista a Piera Degli Esposti] –

Nelle fotografie di Piera Degli Esposti il fuoco è sempre sullo sfondo. A 75 anni, con rossetto, occhiali e sciarpa, ad andare in primo piano è ancora l’atmosfera: “Ho bisogno di sentirmi accettata, di avere un rifugio, di sapermi compresa”. Accadeva anche ieri, prima che la televisione le offrisse cittadinanza onoraria e la popolarità: “Rifiutata da ragazza e piovuta solo adesso che la vita è al tramonto” le restituisse discesa dopo tanta salita: “In molti mi osteggiavano, in pochi mi capivano”. Dopo aver recitato per i Taviani, Pasolini, Moretti, Ferreri, Bellocchio, Sorrentino e Tornatore: “E aver abbandonato il no a prescindere a cui il timore di sporcarmi o scontentare il mio cenacolo intellettuale mi aveva confinata”, mentre al cinema proiettano un bel documentario sulla sua parabola (Tutte le storie di Piera di Peter Marcias, già presentato al Festival di Torino) Degli Esposti si è felicemente data alla serialità in cui famiglia e amore, fin dal titolo, tracciano i Comandamenti dell’abbraccio generazionale. Un trionfo: “Ed è strano perché non ho figli e non sono mai stata giovanilista. Però la tv mi piace. Mi fa entrare nelle case e mi colloca nel presente. Né avanti. Né indietro. I bambini mi sognano e disegnandomi, mi emozionano. Vorrebbero portarmi in camera, come una bambola”.
Quante altre volte si è emozionata?
Tutte le volte che sono stata felice o pur avvertendo l’inadeguatezza, ho ricevuto affetto.
Per Eduardo De Filippo lei era “il verbo nuovo”.
Seppi che sarebbe venuto a vedermi in Molly cara. Ero partita dai teatrini d’avanguardia romani come il Centouno. C’era da avere le vertigini. Sapete cosa dicevamo del Centouno? Che aveva cento posti e un solo bagno. Poi una sera, a Napoli, Eduardo arrivò davvero. Ero rossa e sentivo un gran caldo. Recitai solo per lui. Alla fine venne in camerino con il figlio. “Nun teng interesse perché issa nun m’è parente né song l’impresario suo, ma issa è ‘o verbo nuovo”. Rimasi senza fiato. Con Eduardo, come con De Chirico e Pasolini, sono in debito.
Perché?
Mi hanno insegnato cose straordinarie che all’epoca non capii. De Chirico assistette alla prima di A dieci minuti da Buffalo di Günter Grass. Interpretavo un marinaio. Visto che come donna non mi prendevano sul serio e che la mia fisicità magra e angolosa turbava i più, feci del mio meglio per essere un maschiaccio. De Chirico mi prese da parte: “Bravo , sei stato molto bravo”. “Maestro, ma io sono una femmina” e lui: “Bravo lo stesso”.
Con Pasolini come andò?
Ero una delle ancelle di Maria Callas in Medea e l’inizio fu arduo: “Mi piace la tua faccia perché non hai un volto d’attrice”. Pensavo: “Già non mi prende nessuno e lui rincara la dose”. Pier Paolo voleva dire che avevo un profilo autentico, ma io mi misi sulla difensiva. Non conoscevo il cinema e non avevo idea che inquadratura, presenza sullo schermo e dettagli prevalessero sui dialoghi. Mi accorsi che molte delle mie battute erano state tagliate e mi immalinconii. Un paio di volte, per la delusione, cedetti il primo piano a qualche comparsa. Dovevo entrare da una porta tenendo in mano delle uova e prima del ciak cedevo il malloppo alla vicina nascondendomi. Un altro regista avrebbe urlato, Pasolini tacque. Poteva esser duro e spietato, ma era soprattutto sensibile, audace e fanciullesco. Per la Callas aveva una vera e propria adorazione.
Si è sempre discusso di quella della Callas per lui.
Il sentimento era reciproco. Mangiavano insieme e ridevano, una volta che tanto per cambiare avevo sbagliato porta, li vidi anche darsi un bacio. Pasolini aveva amato anche donne come la Mangano, femmine dalla struttura un po’ androgina. Il confine della sua sessualità era più sfumato, più sottile di una definizione obbligata. Comunque per la Callas si sarebbe buttato nel fuoco. Lo fece, anche.
Dice davvero?
A un tratto, per una spina difettosa, si propagò un po’ di fumo in un casotto costruito sulla spiaggia. Io, la Callas e un paio di ancelle eravamo dentro. Pier Paolo si precipitò prima dei macchinisti con l’estintore. Gridava: “Mariaaa”, “Mariaaa”, noi potevamo anche incenerire, ma la Callas si doveva salvare. Le comparse venivano dalle periferie. Non avevano mai sentito parlare della Callas e non capivano: “Cò sto nasone e cò sti baffi sarà l’amante der produttore”. Poi Novella 2000 rivelò la storia d’amore con Onassis e l’atteggiamento del branco di colpo cambiò. Quando parlava al telefono con lui, le Ancelle ammiccavano: “Ahò, sta a parlà cor greco”.
Quando Pasolini morì nel 1975, Medea era già un ricordo.
Lo seppi per telefono. Pasolini è stato una provocazione vivente. Mai pago di sapere, di denunciare la verità, di vivere nelle contraddizioni del suo abisso. Il sottoproletariato era l’altra faccia della sua esistenza. E quella faccia, Pier Paolo andava a cercarla in solitudine. Un suo amico, Giuseppe Zigaina, sostenne che la sua morte fosse prevedibile. Io non me la sento. Probabilmente ai tempi seguiva una traccia ed era in contatto con qualcuno che in un mondo metamorfico in cui infiltrati e spie erano all’ordine del giorno, non gli voleva bene. All’Idroscalo, comunque, Pelosi non era da solo. Una mia amica pittrice, Pino la Rana, l’aveva avuto come allievo. Non aveva la forza di sollevare un quaderno, non avrebbe mai potuto uccidere Pasolini con le sue mani. Con Giuseppina, la proprietaria del Biondo Tevere, parlai a lungo dell’ultima cena di Pier Paolo. Ricordava tutto. Gli spaghetti, la conversazione, il momento del congedo. Pasolini era felice, aveva molti progetti, non covava pulsioni autodistruttive. A Ostia non inseguiva la fine.
La tesi di Dacia Maraini. Con lei scrisse “Storia di Piera”, fortunata biografia di una parabola avventurosa.
La conobbi alla Casa della donna, mentre suonava il tamburo in un casino indescrivibile. Il femminismo aveva molte diramazioni, le donne marciavano da tutti i lati e Dacia era un capo carismatico. È sempre stata curiosa delle storie e delle persone, mi chiese di raccontarle di mia madre e cominciammo a frequentarci. Mi propose un’estate a Sabaudia, con lei e Moravia. Conversazioni registrate, dormite e bagni. Un periodo bellissimo dopo un paio d’anni atroci. Ero stata operata ai polmoni nel ’77. Un calvario dal quale mi ero ripresa con sommo sforzo. Quando nel ’78 dissi ai medici che sarei andata al Teatro Greco di Siracusa per interpretare Elettra, furono categorici: “Lei l’aereo non lo prende”.
Andò lo stesso?
In treno. Comunque. Il 9 maggio 1978, in tarda mattinata, andai a ritirare i biglietti all’Istituto di Dramma antico in Via Caetani. Aristide Busa, il funzionario, era in ritardo. Il portone sbarrato. Non rinunciai. In quei biglietti c’era più di una semplice scrittura teatrale. Ero tornata in salute e mi riprendevo il palco. Ci sarebbero stati i gradini per sedersi, ma con il solito atteggiamento da suora preferii appoggiarmi a una delle auto sulla strada. Una R4 rossa. Rimasi lì per un’ora, poi, stanca, emigrai per un caffè in Piazza del Gesù. Tornai in Via Caetani, ma non c’era nessuno. Mi spostai in una pasticceria poco distante e lì, a mezzogiorno passato, mi arresi. Telefonai a un’amica per chiederle di passarmi a prendere e lei stravolta: “Hai visto? L’hanno trovato”. Ossessionata dall’attesa azzardai: “Aristide Busa?” e lei con voce spaventata: “Aldo Moro”. Alzai la testa e vidi il caos. Poi la confusione diventò isterismo e l’isterismo, delirio. Nel ricordo è tutto nero e migliaia di persone si accalcano su Via delle Botteghe Oscure.
Lei sostò a lungo sull’auto che custodiva il corpo senza vita di Aldo Moro.
C’era qualche discordanza con gli orari forniti dagli artificieri e si cercavano riscontri su una ragazza dai capelli corti che in Via Caetani, prima che la notizia del ritrovamento fosse di pubblico dominio, aveva chiesto a un poliziotto se nella Renault si trovasse davvero Moro. Decenni dopo mi chiamarono in Questura per fissare il mio ricordo. E la convocazione mi riportò ad allora. Non fu piacevole. Mi inquietò. Ricordare con esattezza, 35 anni dopo, è complicato. Se legittimamente esiti, o sei in malafede, o sei vecchio, o peggio ancora, rincoglionito. Ricordare in sé è violento.
Violento fu il suo rapporto con Carmelo Bene.
Se non ero contenta, la scrittura non la accettavo. A Massimo Castri che mi domandava la ragione del mio rifiuto l’avevo detto chiaramente: “Quando lavoro con te non sono felice”. Figuriamoci se andavo a lavorare con Carmelo che la felicità la bandiva da contratto. Provò ad aggirarmi con la complicità degli amici comuni e mi invitò in vacanza a Forte dei Marmi.
Lei andò?
Era fine agosto. Arrivai e lo trovai tinto di biondo in giardino. Doveva fare Amleto e leggeva assorto su una sdraio. Non alzò lo sguardo dal libro. Mi parve un inizio tremendo. Poi le cose migliorarono. Mi divertiva vederlo preparare il barbecue o giocare a ping pong e buffoneggiare sui punti persi. Arrivò il suo compleanno e gli feci grandi auguri: “Il più grande regalo che puoi farmi è accettare di lavorare con me” disse. Poi mandò avanti il suo amministratore e mi fece offrire 28 milioni di lire. Una cifra folle. Ma io ho sempre avuto bisogno d’amore e non di soldi. Così presi tempo, respinsi le blandizie: “Una volta che sarai diretta da me, non potrai farti dirigere da nessun altro” e chiesi di poter tornare a Roma per riflettere. Lui uscì di testa. Una volta a casa, diedi sfogo alla mia vera indole.
Quale?
Non puoi fingere coraggio se sei pavido. Così pregai Massimo, il mio compagno di allora, di rifiutare al posto mio. Intuivo che Carmelo mi voleva per finirmi. Mi aveva definito “presenza straordinaria”, ma in realtà sottintendeva che l’unica presenza straordinaria dovesse essere la sua. L’avevo capito, mi difesi finché fu possibile e quando arrivò la telefonata di un suo assistente: “Il maestro aspetta una risposta” e io sibilai: “Ma ho già detto di no”, si sentì il ruggito di Carmelo in sottofondo. Un imperativo: “Deve venire a dirmelo di persona, voglio sentire la sua voce”. Andai. E naturalmente persi. Bene aveva una logica ferrea e io mi sciolsi in un istante. Uscii dopo aver accettato il ruolo, definitivamente persuasa: “Non so perché lo dipingano come un mostro, ma Carmelo è diventato dolcissimo”.
Era vero?
Un abbaglio totale. Era solo l’abbrivio della vendetta. L’appuntamento era a Pavia. Il giorno 6 alle 6. Mi presento puntuale in platea e lui inizia a provocarmi: “Mi sembra di vedere la Degli Esposti, come mai sei qui?”. “Avevamo appuntamento oggi”. “Non sarebbe più semplice dire che volevi venire e sei venuta senza appuntamento? Dai, ormai sei qui, vieni sul palco, forza”. Comincio ad avvertire qualcosa di sinistro e chiedo di parlare con l’impresario. C’è un telefono sul palco. Compongo il numero e illudendomi di essere in errore gli faccio la domanda giusta: “Ma non eravamo d’accordo per oggi alle 6? Carmelo dice di no”. Sento silenzio e poi mentre ascolto la risposta: “Hai perfettamente ragione, come al solito ha cominciato a fare lo stronzo”, mi accorgo che il maestro sogghigna da una quinta. “Perché vuoi parlare con l’impresario, Piera?” “Perché è più cordiale di te”, “Io non sono cordiale, cara?” “Sei tutto tranne che cordiale”. In evidente stato di tensione, andiamo a cena. Per due ore dà dell’imbecille a un’amica e poi pretende di provare fino all’alba. Declino. Vado a dormire e alle 9 di mattina, mentre faccio colazione, vedo arrivare il maestro Striano, un galantuomo, con la coda tra le gambe: “Bene dice che lo spettacolo non si fa più”. Non mi fido e chiedo a che ora siano previste le prove. Poi corro a teatro in perfetto orario. Sono una “provarola”, conosco il soggetto e sono certa di trovarlo al suo posto.
Così è?
Così è. Lui ride, fa il pazzo, mi attacca: “Fai troppi ruoli, devo togliertene uno”. Non cado nella trappola fino a quando non esagera: “Purtroppo i microfoni che come sai sono il solo a usare mettono in evidenza una tua difficoltà respiratoria”. La fine è arrivata in quel momento. Picchiare sulla malattia che avevo avuto era di una crudeltà atroce e infantile. Il mio compagno avrebbe voluto regolare i conti sul momento, lo calmai. Dissi solo: “Me ne vado”. E così feci. Carmelo giurava di stimarmi incondizionatamente, ma la storia mi ricordava quella dello scorpione e della tartaruga. Lei deve attraversare il fiume, lui si offre di aiutarla. Mentre guadano, lo scorpione la punge. La tartaruga chiede perché. In quel modo moriranno entrambi. Lui ne è consapevole, ma non può trattenersi: “È la mia natura”.
Per Paolo Sorrentino lei è nella categoria inarrivabili.
È uno straordinario orefice e io sono solo uno dei suoi risultati. Lavora sulle facce, sulla direzione degli attori e porta con sé un mistero complesso. Quasi indecifrabile. Sul set de Il Divo io e Servillo ci guardavamo trasfigurati: “Siamo davvero entrati nella Democrazia cristiana”.
Per Bellocchio darle una scena importante equivale a fornirle uno spazio in cui concederle piena libertà.
Marco è una persona corretta. Ho pensato, senza dirglielo, che eravamo entrambi molto legati alla famiglia e che questo avrebbe potuto facilitare l’amicizia. Ma l’impressione è che Bellocchio non sia un uomo facile e che di amici, per sua volontà, non ne abbia molti. È molto chiuso, avaro di sé, legato alle radici. Sembra il figlio di suo figlio. È rimasto ragazzo, come Nanni Moretti, a cui somiglia. Insieme potrebbero giocare persino a pallacanestro in una parrocchia.
Moretti l’ha conosciuto bene.
Fin dai tempi in cui suo padre lo chiamava Giovanni e a pranzo gli consigliava come imbrigliarmi: “Dovresti dire alla tua amica che è giovane e quando si è giovani è più saggio ascoltare che parlare”. Quando lesse Storia di Piera mi telefonò urlando: “Ma quanti aborti hai fatto?” e io, tranquilla: “Nanni, mica è un’opera dei fratelli Cervi, non devi leggerla per forza”. Siamo stati molto amici e mi amareggio perché qualcuno ha scritto che lo trovavo arido. Non è vero. Aveva grandi slanci. Arrivava sotto casa mia vestito di bianco e se mi vedeva spuntare in lontananza, sventolava gioia: “Pieraaa, Pieraa”. Su mio fratello Franco, socialista, improvvisava strofe: “Penso male di Bettino/mi dispiace per Franchino”.
Craxi non dispiaceva neanche a Dalla.
Un fratello. Ci conoscemmo a 7 anni per non perderci più di vista. Lucio mi rendeva felice. Raccontava bugie, era spiritoso, con lui la vita era leggera. Solo Marco Ferreri mi ha fatto sentire così. Dormivo lieta nell’attesa di rivederlo il giorno dopo. L’ho amato molto. Quando chiesi a mia madre se gli avesse fatto una buona impressione, lei rispose: “Sì, quell’uomo è la sua testa”. Era un buono, ma si incazzava. Anche solo per divertimento. Quando rivedevamo i giornalieri e mi mettevo in ultima fila fingeva di indignarsi: “A Piè, te sto a ffà il monumento e tu te distrai?”.
E l’altra grande passione della sua vita, Robert Mitchum?
Mi sembrava il massimo dell’erotismo, facevo camminare tutti con i piedi stretti come lui e a un certo punto, gli scrissi anche una lettera aperta: “Tutto in te è osceno e speranzoso, un inno all’abbandono. E io che non mi abbandono mai, ti aspetto per vedere se quella meraviglia esiste veramente”. Lina Wertmüller, con cui nessun sogno era impossibile, organizzò per me una cena con lui. “Hai visto cocca dove ti porta l’amica tua?”. Diventai un termosifone, ci sedemmo vicini, lui era un gran civettone molto divertito dal mio presentarmi come l’ultima delle ciabatte. A fine serata ci demmo un bacio. Un bacio vero. Aveva un gusto di caramella. Come il primo bacio della mia vita. Da allora penso che i baci dovrebbero avere soltanto quel sapore.

Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, Il Fatto Quotidiano 29/6/2014