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 2014  giugno 29 Domenica calendario

ANNA CRESPI

[Intervista] –

Mite e solitaria Anna lo fu dall’inizio: «Sono stata una bambina silenziosa, un’adolescente muta, una ragazza senza parole da donare agli altri. Non era autismo. Sentivo le cose del mondo esplodermi dentro. A volte con dolore. Altre con felicità. Come la calma serena del mare quando ci invade e ci si lascia andare al suo leggero movimento. Senza sapere se morire o vivere».
Anna Crespi — la signora della musica, fondatrice degli “Amici della Scala” — è una strana donna. Strani occhi, ancora belli, che sembrano due sottili placche di lago. Strano modo di parlare. Come se le frasi che pronuncia vengano risucchiate dalle notti dense e scure di un dramma. Strano modo di accompagnare i pensieri: stringe le labbra, alza le mani e le porta al volto, come un’attrice che implora di uscire di scena: «Strana, lei dice. E posso convenirne. Ma non stramba. Diversa. Ignorata, sì. A lungo. Soprattutto nei primi anni, quando tutto ti segna e ti resta addosso. Anche le assenze».
È stata complicata la sua infanzia?
«Un martirio senza dolore. Senza estasi. Con degli squarci di rara bellezza. Soprattutto a Menaggio, sul lago di Como, dove i nonni vivevano in villa. Ero infelice senza esserlo davvero. A volte, con i cugini, si scendeva al lago. Ci controllavano le istitutrici. Diversamente dagli altri, che scalmanavano, sentivo crescere in me una sorda inquietudine che si placava la sera. Quando la nonna accompagnava il nostro sonno suonando i Notturni di Chopin».
E quella sua inquietudine da dove pensa che nascesse?
«Non lo so. Gli stati di coscienza, nel loro fluire, sono spesso qualcosa di enigmatico. Provavo un senso di ruvido stordimento. Tra un po’ passerà, pensavo. Tra un po’ prenderò a parlare come una grande e a dire cose belle e profonde. E invece cominciò il lungo silenzio».
Improvvisamente divenne una bambina taciturna?
«Era come una vertigine, quel silenzio. Un distacco dal mondo adulto».
E gli altri come reagivano?
«La reazione più eclatante l’ebbe la maestra. Ero in quinta elementare. Mi convocò alla cattedra e guardandomi decretò pubblicamente che ero una bambina stupida. Aveva capelli rossi. Mi sembrò una creatura irreale: un demone che sbriciolava una piccola vittima».
Lei che reazione ebbe?
«Di totale acquiescenza. Sorrisi. Ma ero anche spaventata. E ora cosa accadrà? Mi dissi. Lei mi ordinò di tenere il grembiulino slacciato dietro. In modo che gli altri ricordassero l’accaduto».
Perché tanta crudeltà?
«Forse perché ai suoi occhi ero diversa. Anche la classe cominciò a reagire in modo crudele. Fui derisa, compatita, maltrattata. Smisi di studiare».
I suoi cosa fecero?
«Nulla. Mia madre mi amava come fossi un cagnolino. Era una donna leggera, andò sposa a 18 anni. Voleva divertirsi. Mio padre ufficiale di cavalleria, era sempre fuori. C’era la guerra. I miei nonni materni furono i veri referenti. Ma non capivano. Vivevano dentro un passato di immobile grandezza. Ricordo che una volta giunse in visita privata alla villa Luigi Einaudi».
Che relazione aveva con suo nonno?
«Erano amici. Non so il motivo per cui il Presidente era lì. Sedevano tutti e tre. Einaudi sulla poltrona e i nonni in bilico sull’orlo del divano. Sembrava la fotografia di un’epoca per me già morta».
È curioso come lei descriva le cose. C’è come un senso di angoscia e di liberazione, a un tempo.
«Forse è la prima volta che riesco a parlarne dopo tanto tempo».
Che relazione ha con la famiglia Crespi?
«Ne ho sposato uno, Mario. Famiglia importante, ma vorrei tenere separate le nostre storie».
D’accordo. Ma come vi siete conosciuti?
«A un ballo, ero molto bella. Venivo da una storia drammatica».
Cioè?
«A diciassette anni cominciarono degli amori bellissimi. Agli uomini piacevano i miei silenzi. Un’estate all’Elba conobbi Guido Cantelli. Era già un grande direttore d’orchestra. Alla stregua di Karajan. Toscanini lo aveva scelto come allievo prediletto. Quella sera sentimmo un fluido attraversarci. Fummo impulsivi, appassionati. Predestinati».
Il grande amore?
«Non lo so. Seppi che era sposato. Con figli. Non volevo rompere un matrimonio. Gli dissi: aspettiamo. Rispose: ho annullato tutte le tournée. La sola che non ho potuto rimandare è quella di New York. Mi scrisse un biglietto: “Quando ritorno verrò a prenderti”. Non tornò più. Appresi dai giornali che l’aereo diretto negli Stati Uniti aveva avuto un incidente dalle parti di Orly».
Cosa ha provato in quel momento?
«Non dolore, né smarrimento. Ma un senso di stupefazione. C’era come una sproporzione tra quello che era accaduto e la mia capacità di elaborarlo. Da poco era stato nominato direttore dell’Orchestra del Teatro della Scala di Milano. Nessuno ebbe il coraggio di dirlo a Toscanini, che sarebbe morto agli inizi dell’anno dopo, nel 1957».
E l’idea di dar vita agli “Amici della Scala” c’entra con quella vicenda?
«C’entra, come c’entra il mio amore per la musica e la cultura. Sono 35 anni che esiste questa istituzione. La creammo con Antonio Ghiringhelli e Wally Toscanini. Ne ho conosciuta di gente che vi ha preso parte: dal grande Rostropovich, del quale divenni amica, a Isaac Stern. Ma anche personaggi fuori della musica come Julien Green e Anthony Burgess. Milano aveva una capacità di accoglierli straordinaria».
Come giudica la Scala di questi anni recenti?
«Me ne tengo per lo più alla larga. La Scala è ancora un luogo di potere vero. Dunque attraversato da scontri e conflitti. Ricordo quelli tra Carlo Maria Badini e Carlo Fontana. La storia si ripete. Tutti litigano con tutti. Questo è un paese di intrighi. Conosce l’arte del disfare, meno quella del costruire. Per questo ci siamo ridotti così».
Che ricordo ha di Wally Toscanini?
«Era nata all’inizio dell’altro secolo. È stata una donna del Novecento: ironica, forte, dotata di uno spiccato senso delle cose. Una volta mi disse che non aveva studiato musica perché il padre detestava i dilettanti, i senza talento».
E il suo di talento? Perché un libro di favole?
«Forse perché volevo riconciliarmi con un’infanzia perduta, mai vissuta pienamente, o forse desideravo idealmente ricongiungermi con una figlia scomparsa. Ho sempre pensato che la favola è la sostanza più vicina ai buchi neri. Non se ne conosce l’origine. Eppure ci attrae».
Dal suo matrimonio ha avuto tre figli.
«Due ci sono. Splendidi. La terza non più. Morta tre anni fa. La mia vita è cambiata. Dopo è stata come un cantiere abbandonato, con i lavori mai finiti».
Posso chiederle come è morta?
«Per un’emorragia cerebrale. Maria Teresa, Matè come la chiamavo io, era una donna molto infelice con una vita complicata. Un matrimonio andato in malora, un altro traballante. Una bambina che adorava. E lei, così fragile da sembrare sempre sul punto di crollare».
Nel suo primo romanzo — Stupida come la luna — c’è il riferimento a una bambina che tenta il suicidio. È come un’immagine premonitrice.
«Accadde tutto dal ritorno di una passeggiata nel bosco. La bambina cominciò a piangere. Per due giorni. Ininterrottamente. Non capivamo. Con mio marito chiamammo un medico. Che sentenziò: un capriccio dovuto alla crescita. Il terzo giorno si alzò dal letto. Divenne taciturna. Alla fine si confidò. Parlò di quella passeggiata nel bosco e di una brutale aggressione».
«Ero esterrefatta. Preda del rancore e della rabbia. Ma anche impotente. Ci sembrava che sulla bambina lo scandalo avrebbe avuto conseguenze peggiori della denuncia. Fu terribile. In un anno la piccola cambiò. Non sorrideva più. Era come se la vita per lei non fosse più un fatto oggettivo, ma qualcosa di alterato, di diverso».
E lei cosa avvertiva?
«A volte mi sedevo per delle ore accanto a lei. Le dicevo: sei ancora in tempo a cambiare. Restava attonita. E io pensavo a una specie di maledizione. Ritrovavo nelle ossessioni di quella figlia il mio passato. Quella frase con cui la maestra aveva decretato la mia eterna stupidità. Un giorno bevve dell’acido. Per fortuna il liquido aveva sciolto la plastica del bicchiere. Ne assunse poche gocce. La trovai riversa nel letto mentre stringeva una boccetta vuota di librium. La portammo all’ospedale. Fu disintossicata. Si salvò quella notte e tante altre notti».
Come fu il rapporto in seguito?
«Di protezione e di cura. Poi un giorno Matè mi chiese: mamma cos’è la salvezza? Non sapevo risponderle. Pensai che la salvezza era entrare nella normalità. Fare le cose che fanno tutti e non vergognarsi degli errori. Mi sembrò che quella normalità giungesse il giorno della sua laurea. Mi tolsi l’anello, le perle, gli orecchini e misi tutto nelle sue mani. Era il segno di una riconciliazione. Un dono che faceva sentire lei grande e me alla sua altezza».
Cosa prova nel rievocare quel passato così intenso e lancinante?
«Penso di non amare il passato. Sempre così vacillante. Non dico inutile. Perché è da lì che ognuno di noi proviene. Scoprire che è stato il dolore a guidarlo mi disorienta. Che fare allora? Come affrontarlo? Sfruttarne le potenzialità? Pregare che tutto abbia fine in un attimo? Non lo so. Sinceramente. La sola cosa che temo è che il passato diventi un vizio».
Si sente in colpa nei riguardi di sua figlia?
«Assolutamente no. Forse è un sentimento che mi ha sfiorata quando era bambina. Ma l’ho amata da morire. Ci sono due momenti nel dolore. Quando ti viene addosso e poi quando ti trasforma. Ancora oggi soffro della sua morte. Quando mi capita di incrociare una cosa molto bella, penso: Matè non può vederla, non può goderne. Provo rabbia e nostalgia per qualcosa che avrebbe potuto esserci e non ci sarà mai».
Quando dice il dolore trasforma cosa immagina?
«Stranamente, la reazione che ha prodotto è del tutto simile al mio passato. Il dolore mi ha reso indifferente. Sono diventata indifferente a tutto ciò che non è necessario. Il dolore profondo rende essenziali».
Lo ha condiviso?
«Con mio marito, molto. Ci siamo aiutati, rafforzati. Ci siamo parlati di più. Abbiamo imparato a dirci le cose in faccia. Prima eravamo distratti. Ma è l’uomo migliore che abbia mai incontrato. Per due anni, dopo la morte di Matè, sono stata come una pazza. Non capivo più nulla di quello che dicevo e pensavo. Cervello in tilt. Poi un giorno ho riso per una stupidaggine e mi sono detta: che bello ridere. Sono tornata a vivere. Con indifferenza, ma a vivere».
Le pesa l’indifferenza?
«No, stranamente la considero una maturazione. È indifferenza verso le cose superflue. Non mi importa ad esempio di morire».
Considera la morte superflua?
«È qualcosa che accade. Ricordo quando sorprendevo mia nonna, nell’ultimo anno di vita, a suonare il piano. Finché un giorno non volle più farlo. Pensai che era atroce aver rinunciato a quel desiderio, a quel suo talento. Poi capii che era semplicemente ridiventata innocente. Ho ancora l’immagine semplice di lei: avvolta in un lenzuolo, con il mento fasciato da una sciarpa di seta».
L’innocenza è una forma di essenzialità?
«Non ho dubbi. Come non ho dubbi sul fatto che ci complichiamo la vita. La vecchiaia è una forma di inerzia. Vorrei alzarmi una mattina con l’impressione di non sapere se sarà un giorno vero o soltanto un’idea».
Una specie di sogno?
«Ecco, un sogno senza che nessuno ti giudichi per quello che hai fatto. Senza contraccolpi».
Contraccolpi?
«Dio e l’emisfero della fede».
C’è? Ci crede?
«Ci credo al cinquanta per cento. Ha fatto tutto bene. Tranne l’uomo. Tutto quello che l’uomo realizza, per brama di ambizione, di potere, di ricchezza, è stupido. A dispetto della mia quinta elementare continuo ad avere fede solo nella bellezza».

Antonio Gnoli, la Repubblica 29/6/2014