Giorgio Bertone, la Repubblica 29/6/2014, 29 giugno 2014
SULLE TRACCE DELL’ENDURANCE
Con la reinvenzione di una sorta di compagno segreto, Eliot aveva colto il momento più duro e intenso della lotta di sopravvivenza dei tre uomini, — “The Boss”, Tom Crean e Frank Worsley — mentre attraversavano a piedi la South Georgia per cercare soccorso. E aveva subito inserito il nucleo concreto di quelle esperienze nel suo grande mito simbolico dell’uomo perduto nella Terra desertica. Ma come mai, nella realtà storica, erano solo in tre? Dov’era il resto dell’equipaggio? E la nave, la famosa Endurance? In effetti l’episodio catturato da Eliot era solo l’epilogo drammatico (nel 1916) di una straordinaria avventura durata anni. E iniziata nel 1914.
Giusto un secolo fa questi erano giorni di spasmodico lavoro per Ernest Henry Shackleton alle prese, a Londra, con i preparativi dell’“Imperial Trans-Antarctic Expedition”, nome roboante nella misura del suo narcisismo, e della necessità di incantare sponsor e autorità. Insomma: attraversare tutto il continente passando per il Polo Sud, già conquistato dal norvegese Amundsen (1911), a spese del povero Scott e a dispetto sempiterno dell’Union Jack. Shackleton sarebbe poi partito nell’agosto 1914, ricevendo la bandiera da Re Giorgio V nella data precisa della dichiarazione di guerra alla Germania. Da buon suddito, offrì all’Ammiragliato l’immediata disponibilità a rinunciare al viaggio e a partecipare allo sforzo bellico della patria. La risposta fu “ Proceed” (“Procedete”), firmato “Il Primo Lord dell’Ammiragliato. Winston Churchill”. Quella volpe di Churchill sapeva bene che l’impresa sarebbe stata seguita dall’opinione pubblica inglese come una dimostrazione non solo simbolica dello spirito britannico in piena sfida bellica. Non avrebbe mai immaginato una simile fine.
Arrivato con la goletta a tre alberi Endurance in South Georgia, Shackleton partì per il Polo dalla capitale dell’isola, la stazione baleniera norvegese di Grytviken, allora in piena attività, ora un fotogenico agglomerato di edifici e cisterne per l’olio, tutti rugginosi, circondati da pinguini e elefanti marini. Primo traguardo: il Mare di Weddell. E fine dell’impresa. I ghiacci imprigionarono la nave «come una mandorla in una tavoletta di cioccolato» (18 gennaio 1915), e la affondarono sotto gli occhi dell’intero equipaggio («Ragazzi! Affonda!», 21 novembre 1915). Di lì cominciò l’altra avventura. Quella che diventerà famosa come la più anabasi della storia degli umani. Una delle grandi leggende del Novecento, così ricco di icone di naufragi, che giunge a noi attraverso una mezza dozzina di film, centinaia di libri, siti internet, documentari televisivi più o meno attendibili, canzoni pop e poemi. Shackleton sarebbe ricomparso in South Georgia nel maggio del 1916, dopo 552 giorni, con i suoi due uomini, i fedeli Crean e Worsley, dopo aver attraversato a piedi ghiacci e nevi dell’isola, mai calcati dall’uomo. Quando si presentò al direttore della stazione baleniera di Stromness, questi non lo riconobbe, se non, dopo un po’, dalla voce. Si girò per nascondere il viso e pianse. Shackleton gli chiese: «Quando è finita la guerra?». Il direttore: «Non è finita. In Europa si stanno ammazzando a milioni. Il mondo è impazzito». Il mondo da un bel po’ aveva smesso di sperare in una ricomparsa del Comandante. E invece. Abbandonata la nave, uccisi per ordine del “Boss” i cinquantasei cani da slitta e la gatta del carpentiere McNeish (non glielo perdonerà mai), tutto l’equipaggio dei ventisette uomini si lasciò trasportare da banchi di ghiaccio grandi come campi di calcio, con le tre scialuppe di salvataggio, fino all’Isola di Elephant che sta sulla punta della Penisola Antartica, dirimpetto a Capo Horn. Ancora tutti vivi e in grado di procacciarsi cibo cacciando pinguini e otarie per prepararsi un’untuosa brodaglia e combattere con fegato fresco lo scorbuto. Il resto dell’umanità era occupato in tutt’altro. Che fare? Do it yourself. The Boss decise di tentare. L’unica terra che offriva almeno una probabilità, per quanto infinitesima, di essere raggiunta era la South Georgia, visto che i venti prevalenti soffiano da ovest verso est. McNeish preparò la più grande delle tre scialuppe, la James Caird, la fornì di un ponte con teli di fortuna, incatramati con un misto di grasso di foca e di fuliggine. Una “replica” della barca si può accarezzare di persona a Grytviken: un capolavoro di carpenteria, da ammirare con le punte delle dita per misurare i sei metri e ottanta centimetri. di quell’”open boat”, che attraversò l’Oceano dalla Penisola Antartica alla South Georgia. Salparono in sei. Grazie all’abile navigazione di Worsley riuscirono a centrare, a sestante e a naso, l’isola. Che è un po’ meno estesa della Liguria, frastagliata da fiordi e circondata da un’infinità di isolotti pericolosi anche per il marinaio di oggi. «Cracked earth», la “terra screpolata” di Eliot. Dentro un paesaggio selvaggio e orrorifico: «La terra più orribile del mondo nel mare più orribile del mondo», secondo il più prosastico James Cook, che la scoprì e ne prese possesso in nome di Re Giorgio III, nel 1775. Aggiungendo: neppure una pianta per farci uno stuzzicadenti. Solo erba (tussac) e licheni dai colori meravigliosi e crepitanti sotto gli scarponi. I sei sulla scialuppa finirono a King Haakon Bay, nella costa occidentale, completamente desertica. Le stazioni baleniere stavano sottovento, a Est. E la Caird era malconcia. Ancora una volta: che fare? The Boss tentò la mossa più audace. Brontolone ma mani d’oro, McNeish cavò quarantotto viti dalla falchetta della scialuppa e, a otto a otto, le infilò negli stivali dei tre prescelti per la traversata delle montagne, perché potessero tenere sul ghiaccio. Con poca attrezzatura e senza alcuna esperienza, percorsero l’orografia di una regione che può essere immaginata come il Massiccio del Monte Bianco con un mare tempestoso che lo tagli al livello dei duemila metri.
Come andò a finire, s’è detto. Una volta arrivati tra i norvegesi, cominciò l’ultima fatica, recuperare tutti, ma proprio tutti: prima i tre di King Haakon Bay, poi gli altri ventidue dell’Elephant Island. C’è da dire che Shackleton nella traversata alpinistica fu molto fortunato. Lo testimonia anche Reinhold Messner, che nel 2000 ripeté l’impresa, insieme con Stephen Venables, addirittura in nave, supersponsorizzati per fare un film, A Nova’s Giant Screen Film. Shacketon’s Antarctic Adventure . Con Messner che, orientandosi da par suo nel labirinto di crepacci, ripeteva il suo « Vee go on! », ovvero « We go on » (“avanti!”), secondo pronuncia sudtirolese, come riporta Stephen Venables in Island at the Edge of the World. A South Georgia Odyssey.
Rifare lo Shackleton Traverse può apparire strano. Non è una vetta, non è una cresta. Alpinisticamente è un nonsense. Un vagabondaggio esistenzialsportivo un po’ complicato. O meglio, una forma di pellegrinaggio sulle orme di un mito. Almeno a leggere qualcuno delle centinaia di libri che fasciano la parte interna della poppa del Pelagic Australis, la barca a vela di venti metri di alluminio grezzo, che ci ha portati dalle Falkland alla South Georgia, e ritorno, per ripercorrere la traversata anche per via di monti e ghiacciai da King Haakon Bay a Stromness. Carica di sci, piccozze, slitte, tende speciali che sopportano i cinquanta nodi del furioso blizzard , pessimo cibo anglosassone, disinfettanti per ottemperare alle severe norme inglesi di Biosecurity: la South Georgia è un’oasi della biosfera unica al mondo, incluse le renne importate qui dai norvegesi a inizio Novecento; e ancora zaini, Gps, Iridium, mappe e libri. Mille miglia, più o meno, all’andata tutto di poppa, con due fiocchi tangonati; al ritorno tutto di bolina, trinchettina e tre mani di terzaruoli. Lo “Shackleton Traverse” oggi è un palinsesto. Ognuno vi trascrive, in caratteri minimi, la propria storia. Tante storie, contenute nella nostra biblioteca antartica o nel piccolo cimitero di Grytviken. Inclusa quella del militare argentino, deceduto quando era già prigioniero degli inglesi durante l’incredibile episodio sudgeorgiano della guerra delle Falkland-Malvinas (1982), che vado tallonando su libri inglesi un po’ reticenti. Felix Oscar Artuso era il suo nome. Ho visitato la sua tomba. Sta a cinque metri da quella di Shackleton con l’alta, solenne, troppo celebre stele, incisa con una strana rosa dei venti a nove punte che in realtà era lo stemma di famiglia, e i versi proprio british style del suo poeta preferito, Robert Browning: “ I hold that a man should strive to the uttermost for his life’s set prize”. (Intraducibile. Qualcosa come: “Ritengo che un uomo dovrebbe sforzarsi nel più profondo per guadagnare il premio di una vita completa”).
Giorgio Bertone, la Repubblica 29/6/2014