Federico Rampini, la Repubblica 29/6/2014, 29 giugno 2014
HONG KONG, LE MULTINAZIONALI CONTRO IL VOTO
La democrazia disturba il capitalismo. Lo sostengono senza pudori i “big four”, i quattro colossi che si spartiscono il business mondiale della revisione dei conti e certificazione di bilanci. Con un appello pubblico, diffidano la popolazione di Hong Kong dal rivendicare libere elezioni. Si schierano con il governo di Pechino: l’autoritarismo come elemento di stabilità. I quattro firmatari sono Kpmg, Deloitte, Pricewaterhouse- Coopers, Ernst&Young.
Un cartello oligopolistico che si spartisce uno dei mercati più profittevoli del mondo: audit, consulenza fiscale e finanziaria per le multinazionali. Un business da 17 miliardi di dollari, un sesto del quale ormai proviene da clienti basati a Hong Kong, Cina, e dintorni. Per le aziende transnazionali, Hong Kong è stata sempre una piazza accogliente, anche dopo che l’isola ha cessato di essere una colonia inglese ed è diventata parte della Repubblica Popolare cinese (1997). Perciò guai a ”disturbare il manovratore”, in questo caso il governo di Pechino che ha consentito a capitalisti di ogni bandiera di fare i loro affari a Hong Kong.
Le proteste in corso, incluso un referendum, per ottenere elezioni libere a suffragio universale, sono proprio questo: un “disturbo” pericoloso. Le quattro società di certificazione dei bilanci hanno comprato pagine di pubblicità sui quotidiani locali in lingua cantonese.
Nella dichiarazione comune accusano i promotori della democrazia di «perturbare la Borsa, le banche e le attività finanziarie, provocando danni inestimabili all’economia ». Lo scenario descritto in quell’appello è catastrofico: «Le multinazionali potrebbero spostare i loro quartieri generali da Hong Kong, intaccandone il ruolo come centro finanziario globale». Le rivendicazioni di un voto democratico sono condannate come una «minaccia verso la legalità locale».
Interpellate a New York e a Londra, le case madri dei quattro colossi hanno ostentato ignoranza. La parola d’ordine: si tratta di un’iniziativa locale, decisa dalle sedi di Hong Kong, apparentemente senza consultare i loro quartieri generali in Occidente. È così che hanno scelto di farla apparire, evitando la traduzione inglese.
Troppo imbarazzante dover dare spiegazioni all’opinione pubblica occidentale. Ma l’appello certamente non è sfuggito al governo di Pechino che deve averlo considerato più che giusto; il documento dei quattro big serve a spaventare gli elettori di Hong Kong in una fase delicata.
Negli accordi siglati tra la Cina e l’Inghilterra ai tempi di Margaret Thatcher, la “cessione” dell’isola doveva accompagnarsi all’instaurazione di libere elezioni a suffragio universale, oltre al rispetto dello Stato di diritto. Questa seconda parte degli accordi e` stata applicata, tant’è che Hong Kong non viene sottoposta alla censura cinese. Ma il chief executive dell’isola (governatore) viene eletto da un gruppo di notabili manovrati da Pechino. Le libere elezioni sono rinviate, forse al 2017. Chi non vuole soggiacere ai diktat di Pechino sta partecipando in questi giorni a un referendum per designare il sistema elettorale futuro. Hanno votato già in 750 mila, sfidando le ire del governo cinese, che condanna il referendum come illegale. Adesso non è più il solo.
Federico Rampini