Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 28 Sabato calendario

SELFIECONOMY

Al principio era puro ego. Semplicemente, selfie. Autoritratti amatoriali da dare in pasto al pubblico, via social network. Poi l’ego ha preso il master e sono arrivati i dottorati, le specializzazioni. Chi ha fatto carriera nei belfie, i vanitosi del sedere, in quella dei bikini bridge, feticiste della propria pancia, dei gelfie, autoscatti ginnici in tuta o calzamaglia, da appena svegli nei bedstagram, per dire al mondo «guarda come sono bello anche nature». E ancora ci sono i molfie, con mamma (fissa da James Franco in su) e i sexfie, l’autoscatto dopo l’amore, attività comunque più salutare che accendersi una sigaretta. Meno ripetibili e non per tutti, invece gli scalfie, per cui è richiesta la presenza di Roberto Benigni, che ha coniato il termine durante Repubblica delle idee a Napoli, oltre che di Eugenio Scalfari.
Più il tempo passa, più all’ego si somma l’interesse economico e anche le aziende si accorgono che il fenomeno virale può diventare valuta molto più remunerativa dei bitcoin. Ed è “selfieconomy”, nuova branca alimentata dalla vanità e soprattutto da un desiderio (infinitamente più genuino) di trarre profitto dall’attività più praticata, ubiqua, abusata, postata, twittata che esista nell’era dei network. Da dare in pasto, stavolta, al social marketing.
Il gesto ha anche una data di nascita: 2 marzo 2014. Fu allora, nella notte degli Oscar, che Ellen DeGeneres mostrò al mondo quanto può valere un pollice (nella fattispecie quello di Bradley Cooper, che scattò). 20 milioni di dollari ci mise lo sponsor Samsung per dotare le star di un Galaxy, per fare sfilare anche il suo smartphone sul red carpet, sugli schermi della Abc e in tutto il mondo (e che importa se poi, nei camerini, gli attori tornavano a usare i loro iPhone?). «Abbiamo fatto la storia», fu il commento della DeGeneres al selfie di gruppo. Ecco, forse non si riferiva ai film in concorso.
Da allora le aziende hanno impugnato il fenomeno declinandolo in ogni genere di promozione, offerta, sconto, concorso. Risalgono a un paio d’anni fa i primissimi esperimenti (Nokia, Kellogg’s o Algida, erano alcune delle aziende che ripagavano i selfie dei loro consumatori con sconti o promozioni), ma solo quest’anno la strategia è dilagata facendo il giro del mondo. Come sulle ali della Turkish Airlines, che per la sua la campagna da 137 milioni e passa di visitatori (The Selfie Shootout, con Lionel Messi e Kobe Bryant) si è aggiudicata il premio “Most Viral Celebrity Spot in Advertising Age’s 2014”.
A fine 2013 i selfie erano 35 milioni (solo su Instagram), mentre quest’anno Ad Week ha pubblicato un’infografica illuminante sull’ossessione dei brand per questa forma di marketing: a gennaio dell’anno scorso 7 aziende la utilizzavano per farsi pubblicità su Facebook, 13 erano quelle che ci costruivano intorno un concorso (posta una tua foto abbracciando il prodotto X e vinci una promozione Y). A dicembre sono diventate 129 e 207; su Twitter sono salite rispettivamente a 262 e 871, dalle 11 e 252 che erano.
Il motivo sa di acqua e sapone: «Sono contenuti spontanei. E le aziende sanno bene quanto la spontaneità e la naturalezza siano fattori chiave nella comunicazione sui social», dice Sara Carminati di Innovation Marketing, agenzia milanese con un portfolio clienti che va dal produttore di materassi al grande parco divertimenti. «Rispetto alle strategie istituzionali, i selfie hanno un riscontro fino a 20 volte maggiore in termini di coinvolgimento, permettendo un’associazione iconica tra brand e consumatore. Non c’è miglior placement di un cliente che celebra in un autoscatto il proprio prodotto preferito».
Se poi nell’inquadratura c’è anche il proprio personaggio preferito, tanto meglio. In Italia Wind ha lanciato la sua campagna con Fiorello con timing da Oscar, il 4 marzo: «Il selfie è stata la chiave narrativa per ritrovarci più vicini alle persone, alla loro quotidianità fatta anche di questo», ci dice Claudia Erba, direttore advertising dell’azienda di telecomunicazioni. «Una volta si chiamava autoscatto e oggi si chiama selfie, ma è solo la vita vera. Ed è bello vederla anche nelle pubblicità».
A patto che nella “vita vera” anche l’ego riceva qualche gratifica, «piccoli reward di ringraziamento», puntualizza Andrea Betti, strategic planning director di JWT Italia. Tempo fa bastava molto poco per ringraziare (spesso si finiva semplicemente pubblicati in una photogallery), poi un po’ di più (un paio di lacci se ci si fotografava con le proprie sneaker Superga, o forniture di patatine Fonzies). E ancora un altro passo: tecnogadget in cambio di selfie “disimpegnati” (come un analcolico Crodino) o qualcosa di più discrezionale (ci puoi comprare quello che vuoi con i 5mila euro messi in palio per le ciglia più belle - Maybelline). Piccoli reward, che stanno evolvendo e diventando sempre più spesso moneta. Un po’ come i regali di Natale che ti faceva la nonna: da bambina erano bambole, da adolescente erano buste rosse con grafia svolazzante e 50mila lire dentro.
In Inghilterra il marchio di surgelati Birds Eye si è spinto oltre, promuovendo i selfie a vera e propria valuta. Per il lancio di due nuovi prodotti, ha aperto un ristorante dove il conto si paga non in denaro, ma sonanti autoritratti-con-vista-piatto (se pubblicati su Instagram). Non è un caso che sia spesso il cibo al centro dei voyeurismi, il filone food-porn ha già riempito il web di foto artistiche scattate da ghiottoni a cibi scandalosamente sexy. Ed era prevedibile che un’ulteriore spinta alla monetizzazione venisse dall’industria del sesso: nuovi di zecca, i Titcoin (selfie del topless, lanciati dal sito Pornhub) sono diventati merce di scambio e ci puoi anche pagare l’idraulico.
Andando oltre i bilanci domestici, la potenza fotogenica dell’ego è riuscita a risanare bilanci aziendali e moltiplicare i fatturati: la giapponese Casio ha recuperato il flop della fotocamera TR ripiazzandola sul mercato a uso e consumo delle fanatiche cinesi del selfie e la tawainese Htl ha annunciato che diventerà il colosso del settore producendo telefonini sempre più sofisticati per immortalarsi da vicino. E come succede in tutte le economie dell’abbondanza, anche nei selfie spunta un risvolto benefico. La celebre campagna #nomakeupselfie invitava star e gente comune (soprattutto le prime) a postare autoscatti senza trucco. Un’iniziativa che, in soli sei giorni, raccolse circa 8 milioni di sterline per la ricerca inglese sul cancro. Come dire: la storia si può fare anche senza red carpet.