Paola Santoro, D - la Repubblica 28/6/2014, 28 giugno 2014
SARA ERRANI: «VOGLIO VINCERE»
Guarda dritto, guarda in macchina, pensa all’orizzonte», le chiede il fotografo sul set di queste pagine. E Sara passa in un lampo dalla dolcezza del sorriso che fuori dal campo le scioglie lo sguardo a una fissità quasi arrabbiata, la stessa che “indossa” in partita. Perché l’orizzonte di Sara Errani è blindato da mura di cemento: quelle della sua determinazione. Se gli sportivi sono tutti tenaci e ostinati, i tennisti che diventano campioni lo sono di più: «I match sono lunghissimi, non può essere questione di fortuna. Davanti alla rete sei sola, hai il tuo allenatore vicino, ma in campo ci sei tu e non puoi chiedere cambi, non puoi essere sostituito. Il pareggio non è ammesso. O vinci, o perdi», dice lei.
Sara, 27 anni, romagnola di Massa Lombarda, vince da quand’era bambina e soprattutto dal 2012, quando ha cambiato racchetta, decidendosi per una Babolat Pure Drive (che ha battezzato Excalibur, come racconta nell’omonimo libro che parla di lei, vedi box), più lunga di un 1,5 cm dei 68,5 standard. «Per adottarla ho pagato 30mila euro di penale alla Wilson, cui ero legata per contratto. Ma una volta provata non potevo farne a meno: mi ha fatto sentire sensazioni nuove, più potenza, più controllo. Mi ha fatto conquistare sempre più partite». Erano più di cinquant’anni che il tennis femminile italiano non otteneva risultati simili: nell’ultimo triennio Errani è stata tre volte semifinalista in un torneo dello Slam (due volte Francesca Schiavone, una Flavia Pennetta), è arrivata ad essere la quinta tennista al mondo nel singolo e la prima nel doppio, con l’inseparabile Roberta Vinci. Per capire quanto siano legate le due campionesse anche fuori dal campo basta dire che in questi tre soli giorni di riposo prima di Eastbourne (il 16 giugno) e soprattutto di Wimbledon (che si gioca in questi giorni), è venuta a riposarsi a Palermo, ospite di Roberta che qui vive e si allena, nel magnifico Country Time Club davanti alla spiaggia di Mondello.
Sara invece ha stabilito il quartier generale a Valencia, dove vive «in un appartamento in centro che ho comprato qualche anno fa. Non è che sia scappata dall’Italia. Ho cercato a lungo un’accademia, ma non sono riuscita a trovare un allenatore che mi seguisse a tempo pieno. Ero minorenne, avevo bisogno di qualcuno che si dedicasse solo a me, che mi accompagnasse ai tornei. Poi ho incontrato Pablo Lozano, che viveva lì, che ha scommesso su di me anche se era molto giovane anche lui. Lavoriamo insieme da 10 anni. È amico, padre, psicologo, fratello. Sono rimasta a Valencia per lui e perché ho valutato che per me quello è il posto ideale. C’è l’accademia e ci sono altri ragazzi, tennisti che fanno la mia stessa vita: aiuta scambiare sensazioni, fa crescere. Ho imparato anche guardando David Ferrer allenarsi, mi ha fatto capire come arrivare a un certo livello. Tutto sta nel prendere le decisioni giuste, e assumersene la responsabilità. Io non ho mai perso di vista i miei obiettivi, ma quand’ero piccola avevo bisogno di vedere “la strada”, e se devi anche essere bravo a capire quale è la tua, è utile che qualcuno l’abbia tracciata prima di te».
A Valencia c’è casa, ma casa sua è in Romagna, «dove c’è la mia famiglia. Ma faccio una vita nomade che prescinde dagli edifici, l’importante è che abbia vicino le persone che amo. Sarebbe troppo dura altrimenti». In effetti Sara non ha mai avuto il tempo di radicarsi. A 12 anni è partita per la Florida, per l’Harvard dei tennisti, l’accademia di Nick Bollettieri che ha sfornato molti campioni del nostro tempo. «Mio padre giocava, ho dei video di me piccolina nel passeggino sul campo, ma ho iniziato perché volevo fare tutto quello che faceva Davide (il fratello, a cui è legatissima e che oggi è anche il suo manager oltre che quello di Roberta Vinci, ndr). Sono passata dal calcio al basket, poi ho capito che nel tennis potevo fare bene. A 12 anni sono partita da sola per gli Usa. All’inizio ero contentissima, la mia idea era che sarei stata un po’ lì e che poi sarei tornata e avrei vinto contro tutti. Ora vedo arrivare a Valencia i dodicenni e penso che i miei genitori sono stati dei pazzi a lasciarmi andare. Mi hanno dato grande fiducia ma anche grande responsabilità. Io responsabile lo sono sempre stata, ma quel carico poi ti pesa dentro». Come ha vissuto la quotidianità? «Piangevo sempre, contavo i giorni che mancavano per tornare a casa. Contavo le ore, i minuti, i secondi. Diciamo che ho esercitato la matematica, che è sempre stata la mia materia preferita».
Ora Sara esercita i numeri in un altro modo: consultando la classifica WTA. Lo confessa con il leggero accento spagnolo che ha preso in questi anni, e si illumina come una bambina: «La guardo di continuo, mi appassiona. Ci sono tante giornate in cui sei distrutto dalla stanchezza. Durante il Roland Garros, o agli Internazionali di Roma, ho giocato tantissime partite, singolo e doppio, singolo e doppio. Mi svegliavo al mattino e dicevo: io non ce la faccio, oggi non ce la faccio. Ma è lì che devi reggere, muovere tutto con la volontà di riuscire a rialzarti e ricominciare. Il ranking mi motiva. Poi in campo pensi al tennis, ma questa cosa di contare i punti mi aiuta a trovare motivazione. A volte penso “10, 20, 50 punti in più chissenefrega...”, altre mi alzo dicendomi “Coraggio, se fai questo sono 5 punti in più”, e torna l’adrenalina». Il tennis consuma? «Lo sport a questi livelli è durissimo. Le articolazioni soffrono, per l’usura magari a 40 anni non potrò più muovermi. Non è come quando fai esercizio per restare in forma. Qui devi imparare a gestirti, ad ascoltarti. Eppure mi diverte ancora. Mi piace palleggiare con il mio allenatore. E mi piacciono i tornei, la competizione, studiare la strategia, pensare tatticamente a una partita».
Poi vengono le soddisfazioni, i risultati... «Sì, e abbiamo anche la fortuna di essere molto ben pagati, ma ogni tanto guardo Pablo e per scherzare gli dico: “Certo, era bello quando ero quarantesima”, quando avevo ancora i miei spazi e me la godevo in un altro modo». In vetta bisogna essere più forti? «Io lo sono per carattere. È una dote che avevo e che ho anche coltivato: la forza l’ho tirata fuori soprattutto da Bollettieri, è lì che ho imparato a soffrire. Non sono mai andata in gara pensando “Adesso vinco il torneo”. Sono sempre scesa in campo ripetendo “Adesso vinco il primo punto della prima partita. E poi penso al secondo, al terzo e così via, al risultato di quella partita e poi al secondo turno, se vinco”. L’obiettivo è domani, poi sarà dopododomani». Sofferenza e sacrificio sono parole che ricorrono nel gergo Errani. Quello supremo è la vita privata? «In questo ambiente non puoi conoscere una persona al di là del suo ruolo rispetto allo sport. Conosci gente che sempre e comunque copre ruoli predefiniti: io sono la tennista, tu sei il fisioterapista, il medico, il massaggiatore; questo non aiuta il nascere di un amore. E non lo aiuta neppure non trascorrere mai più di pochi giorni nello stesso posto. Adesso sono single, e serena. Innamorarsi non è una cosa che puoi decidere, “lo faccio o non lo faccio”, come se dovessi comprare un divano. Io non lo escludo, se dovessi conoscere qualcuno certo non gli direi: “No, guarda, non posso, gioco a tennis”. Ma facendo la mia vita so che è improbabile trovare un fidanzato. Un conto è l’amore che dura 10 anni, un altro è stare con qualcuno per qualche mese, sono pesi diversi. E comunque non ne parlerei mai in pubblico: non mi piace che si giudichino dall’esterno i miei sentimenti. Oggi non ho relazioni in corso, ma amici e familiari che mi danno grandissimo sostegno».
Pablo l’allenatore, Davide il fratello e Roberta, l’amica e collega sono spesso con lei ai tornei. Suo padre è quello che condivide le sue scelte sportive, sua madre è quella che si occupa di lei al di là delle partite: «Lei ha sempre pensato a me come persona. È quella che mi chiede se sto bene, se sono felice. Quella che mi ha insegnato la forza senza usare le parole, ma reagendo lei stessa nel modo più composto alle situazioni difficili, dando l’esempio». E Sara Errani ha voglia di maternità? «Una famiglia davanti la vedo. Mi piacciono i bambini: Pau e Alex, figli di Pablo, e Giuggi e Pallino, i figli di Francesco Cinà, l’allenatore di Roberta, sono spesso con noi, e mi hanno fatto scoprire che non sono negata come credevo, anzi, che sono in grado di fare lo stesso gioco per ore senza stancarmi. Mi viene facile perché sono zuccona come una bimba, ma più paziente». Per ora, da single, pensa a vincere, e ogni tanto a cosa inventarsi per il “dopo”, per il fine carriera. «Ho avuto sempre una grande passione per la Nike. Da piccola vincevo sperando che poi la Nike mi avrebbe sponsorizzato come faceva con il mio idolo, Agassi. E ci sono arrivata. Un giorno mi piacerebbe lavorare con loro, potrei portare competenze tecniche, aiutare a sviluppare i materiali. E poi.. c’è un’altra cosa che mi appassiona», confessa Sara, voce bassa e sorriso vergognoso: «Mi piace controllare i voli su internet. Se dobbiamo prendere un aereo a me piace star lì a confrontare i prezzi dei biglietti. Solo se devo andare lontano lascio che li compri un’agenzia, perché trovano tariffe alle quali io non ho accesso». Ma cosa c’era oltre l’orizzonte, Sara, quando il fotografo le diceva di guardare lontano? «Mi vedevo in campo e stavo perdendo. Lo sguardo è quello di quando voglio rovesciare una partita, di quando voglio rovesciare tutto».