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 2014  giugno 28 Sabato calendario

LA BANDIERA AMERICANA NON È PIU’ MADE IN CHINA

Ago, filo, e il mare si accende di stelle. Un colpo d’anca e due passi in avanti, ecco che sbocciano tappeti rossi lungo distese di bianco. Balla Dorothy. Balla a scatti come una break-dancer consumata. E lo fa cucendo la “Old Glory” al ritmo funky-rock della fabbrica, con i capelli che saltellano sulle spalle. Che poi, lo sferruzzare indiavolato di colleghe e colleghi lo avverte appena, presa com’è dall’orchestra di chitarre e batteria che si scatena dentro le sue cuffie auricolari. We’re an American band! incalzano i Grand Funk Railroad, i ragazzacci del Michigan che cantano le storie di Detroit, quand’era ancora fieramente MoTown, operai con le mani unte d’olio, automobili nuove fiammanti e un sogno per ogni bullone avvitato.
Ma qui siamo nella personale pista da ballo di Dorothy Fitch, a Coshocton, nello Stato dell’Ohio, il cuore pulsante dell’America, dentro il più grande stabilimento della più antica azienda di bandiere a stelle e strisce, Annin Flagmakers, prodotti per la patria dal 1846. Per 13 dollari l’ora, dalle 6 di mattina alle 15, venti minuti di pausa e pranzo portato da casa, la donna 40enne e altri 250 lavoratori sfornano 250 mila bandiere ogni settimana.
«Ne abbiamo fatte di tutti i colori - scherza Rick Merrell, direttore dell’impianto - e di tutti i tipi: nylon, cotone, poliestere; per uffici pubblici, vessilli per singoli Stati, Texas su tutti, e ora anche stemmi per i diritti di genere, gay&lesbian. Le nostre bandiere hanno fatto la storia d’America: sono state issate a Iwo Jima, sulla Luna con Apollo 11 e anche a Ground Zero con le prime squadre di soccorso». Già, l’11 settembre 2001, la ferita ancora aperta dell’America, quando, in preda al panico, milioni di statunitensi si rifugiavano nello “Star-Spangled Banner”, l’inno nazionale, piantando la bandiera davanti alle villette a schiera come fossero milioni di fortini contro l’arrivo degli Apache.
Poi lo scandalo. Tante di quelle bandiere, un giro d’affari annuo di mezzo miliardo di dollari, come buona parte dei prodotti che finiscono nel carrello della spesa americana erano "made in China". Polemiche, baruffe nei talk show, il Minnesota che alza la voce e annuncia sanzioni fino a 90 giorni di carcere o 1.000 dollari di ammenda per chi, nei pubblici uffici, espone i colori americani prodotti nel Far East. Ma ora a Coshocton è tempo di tornare a ballare nelle fabbriche. La legge All-American Flag Act, approvata quest’anno dal Congresso, impone che la Old Glory sia al cento per cento americana.
Dorothy tira un sospiro di sollievo. Il suo lavoro, per il momento, è salvo. E non è poco, visto che il marito ha trascorso un anno a spasso, licenziato dalla sua ditta, e lei a tirare avanti la baracca cucendo e ballando e facendo finta di niente. Perché da queste parti delocalizzazioni e chiusure fulminee di aziende hanno spazzato l’Ohio come un tornado. Oggi però nella vecchia Rust Belt le cose stanno cambiando. E non solo per forme di nuovo protezionismo.
Basta chiedere a Steve Mercer. Lui non ama ballare. Ma è un uomo di segnali, nel senso che oltre a occupare il posto di sindaco della cittadina, produce segnaletica per strade, cantieri e opere pubbliche. «E ho deciso di cambiare direzione. In primavera ho battezzato Coshocton come prima “made-in-the-Usa City”. Alla desertificazione industriale rispondiamo con una città dove si producono beni americani al cento per cento». Steve Mercer, per quanto digrigni i denti a sentir parlare di Obama, non è il solo a pensarla così. Anzi, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato un programma di reshoring per riportare a casa l’industria e i posti di lavoro. Una serie di interventi economici che hanno funzionato, anche grazie al fatto che in Cina i salari aumentano del 20 per cento l’anno, rendendo sempre meno convenienti le delocalizzazioni. E gli Usa, nei giorni scorsi, hanno decretato la fine della recessione, riportando la disoccupazione ai minimi dal 2008, intorno al 6 per cento.
A Coshocton, intanto, il tasso di sviluppo si rapporta al numero dei passaggi in città degli uomini in arancio. Uomini di grossa stazza, tatuati, che al tramonto improvvisano pantagruelici barbecue e scolano birre davanti ai bar. È la corsa al gas ottenuto dalle fratture delle rocce (shale gas), un orrore per gli ambientalisti, ma a basso costo per l’industria. Sono le tre di pomeriggio e Dorothy è stanca. Non sa se a causa del lavoro, del ballo o tutto insieme. Ma stasera si esce: il marito ha trovato un impiego e gli è tornata voglia di divertirsi. Non la porta a ballare né a cena fuori, stasera si va sugli spalti a vedere una corsa di automobili: odore di benzina, fango, sudore e birra a volontà. «No, non è molto romantico. Ma è almeno è un nuovo inizio, non credi?».