Lia Ferrari, Io Donna 28/6/2014, 28 giugno 2014
LA MIA OPERA D’ARTE È UN ARCIPELAGO DI PLASTICA CHE A SETTEMBRE TRAVOLGERA’ L’ONU
Un paese giovane, il Garbage Patch State. È stato dichiarato Stato Federale l’11 aprile 2013, all’Unesco di Parigi. Due mesi dopo, in concomitanza con la Biennale d’Arte, aveva già un padiglione a Venezia come tutte le grandi Nazioni. Nella scorsa primavera la Festa nazionale, celebrata a Roma nel cortile del Maxxi. Ora in agenda c’è l’invio a settembre di una delegazione al Palazzo di Vetro dell’Onu, a New York. Traguardo notevole. Peccato sia uno Stato scomodo. Un arcipelago di plastica. Piatti, bicchieri, bottiglie, tappi, ciambelle salvagente, ciabattine infradito, buste per la spesa, accendini.
Usati, abbandonati, finiti in mare e ridotti a microscopici frammenti, in poco più di mezzo secolo hanno creato cinque isole oceaniche che coprono una superficie di circa sedici milioni di chilometri quadrati. Una terra di nessuno, almeno finché Maria Cristina Finucci non ha deciso di piantarci bandiera. Ha dato una veste al Paese, pronunciato il discorso d’insediamento, eletto un Capo di Stato, messo online il sito ufficiale. Un progetto di “cross-media art”, spiega. Che tra i tanti riconoscimenti, le è valso un Premio Speciale della Fondazione Marisa Bellisario.
Lei è moglie dell’ambasciatore italiano a Madrid. Perché sporcarsi le mani con lo “Stato dei rifiuti”?
Il mio obiettivo è denunciare un dramma di cui si parla poco. Queste chiazze che avvelenano i mari sono grandi quasi quanto la Russia, eppure passano inosservate, almeno da parte dell’opinione pubblica. Il fatto è che la plastica si disgrega diventando invisibile e questo la rende ancora più perniciosa: in una cultura come la nostra, fondata sull’immagine, ciò che non si vede non esiste. Da artista, mi sono sentita in dovere di dare forma a questa emergenza. Nella mia prima installazione, all’Unesco, ho rappresentato il Garbage Patch State con sacchi di plastica trasparente riempiti d’acqua e tappi di bottiglia. Erano disposti a semicerchio davanti a uno specchio, in modo che i presenti, vedendosi riflessi, capissero di essere attori, non semplici spettatori, di questa realtà.
Ha pronunciato un discorso di insediamento. Cosa diceva?
Era un discorso retorico, come quello di un vero Capo di Stato. La mia è un’azione etica, poetica e anche politica. Ho enfatizzato l’importanza del momento e il fatto che il Garbage Patch State è una nazione che tutti abbiamo contribuito a creare. In sessant’anni siamo stati capaci di modificare la geografia della terra. Non potendo più nascondere a noi stessi questa realtà, era venuto il momento di riconoscerla.
È vero che le sono arrivate richieste di cittadinanza?
Sì. All’inizio di passaporti non ne volevo rilasciare. Poi ho deciso di creare un’anagrafe di 5 mila oggetti. Come bicchieri, piatti, bottiglie, flaconi di shampoo, tutti schedati con una carta di identità. Per ottenere la cittadinanza bisogna adottarne virtualmente uno. È un invito alla riflessione. A interrogarsi sul sentimento degli abitanti del Garbage Patch State. Io credo si sentano artefici involontari di una devastazione. E non vogliano che altri oggetti, ancora scintillanti nelle vetrine dei negozi, facciano la loro stessa fine, cioè usati una volta sola e poi buttati via, finendo per deformarsi lontano dai nostri occhi, nel lebbrosario in cui li abbiamo confinati.
Adozione a parte, cosa si può fare?
Non demonizzo la plastica. Dico di farne un uso intelligente. È assurdo, per dire, che quando compri una crêpe ti venga fornito un set completo di posate. Coltello e cucchiaio finiscono direttamente nel cestino, senza neanche essere stati usati.
A settembre ha un appuntamento importante all’Onu. Che cosa presenterà?
Un’onda di plastica che attraverserà il Palazzo di Vetro, anche questa amplificata da specchi. E una delegazione ufficiale dello Stato, fatta di pupazzi costruiti con materiali di scarto. Se riesco anche un flashmob, in contemporanea in diverse città. Wasteland, il progetto in cui rientra il Garbage Patch State, prevede anche azioni come queste.
Dopo New York?
Penso a una spedizione in barca a vela sul Garbage Patch. Quello vero, sull’Oceano. Il mio è un simulacro.