Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 30 Lunedì calendario

UN MORSO, ED è SUBITO VOGLIA DI CANNIBALISMO

Matej Curko, l’antropofago slovacco ucciso il 10 maggio 2011 mentre stava per mantecare un amico, ha lasciato ampia documentazione su come friggere un seno. Il taglio, il tipo di padella, i tempi e le spezie. E un ventaglio di contorni a cui attingere. Armin Meiwes, meglio noto come il cannibale di Rotenburg, nel 2007 spiegò all’affamato pubblico televisivo come la carne delle sue vittime avesse «un odore insolito, e tuttavia piacevole, come di maiale. Una volta in bocca risulta molto tenera e saporita nel gusto». L’importante, precisò, è aprire le danze con il boccone del re, il pisello. «Va fatto rosolare velocemente nell’olio di oliva con un pestato di aglio e cipolla».
Scegliere con cura la provenienza di cotanta ciccia – maschio bianco dai 18 ai 30 anni. Sui 40 è buono solo per il ragù. Il russo Nikolai Chadrine ne cucinò uno superbo con il fegato dell’amico Ilia. E i due ventenni di San Pietroburgo, Maxim e Yury, per sostanziare l’insipida carne dell’amica Karina, sedicenne e magrolina, le bollirono accanto due chili di patate e cipolle.
Il cannibalismo è una vecchia storia e un antico tabù. Vero o mito che sia, ogni tanto rispunta tra le pagine dei giornali come a dire: ehilà, è possibile. Mangiare carne umana si può fare, può piacere e la si può digerire senza complicazioni. E c’è chi, cronache recenti dimostrano, naviga su e giù per la rete con un cartello in mano: «chi mi mangia?». Su necrobabes.org, un tempo club esclusivo dell’internazionale antropofaga (ora chiuso ma visitabile grazie a web.archive), gli Hannibal «per gioco» si davano appuntamento per discettare su «quale vino accompagnereste le orecchie?», o su cosa fosse più tenero, se l’interno coscia o la chiappa. Fino a indicazioni da testamento biologico: «Per cucinarmi suggerisco una temperatura che non ecceda i 250 gradi». Letture da Luna park, da cazzeggio e pan bagnato, se non fosse che proprio lì, in un pomeriggio di alcuni anni fa, il cannibale slovacco incontrò la sua prima vittima: «Ho fame, e non c’è pane. Come faremo?». «Ci incontreremo».
Il poeta brasiliano Oswald de Andrade, e parliamo degli anni Venti, nel suo Manifesto per l’antropofagia, capovolse l’iconografia coloniale che riduceva gli indigeni a selvaggi col pentolone, e esortò gli altri intellettuali a divorare l’arte, la lingua e gli stili di vita europei per consentire alla cultura colonizzata di riconoscere – nel prodotto del pappare – la propria differente identità. Illuminante de Andrade. Mangiare Shakespeare per capire chi siamo. To eat or not to eat. È un problema non da poco, non solo per i poeti. Cosa si fa con il prossimo? Come ci comportiamo con l’altro, dal momento che è bino, insieme minaccia e desiderio? È il pupo di mamma («Mmm, come ti mangerei queste cosciotte») e il nemico che «facciamo a pezzi», è l’amante che «divoriamo di baci» e lo stronzo che «mangeremmo vivo». Spie inconsapevoli di un appetito cannibalico mai sopito. Che, nel bene e nel male, parla di affettività.
Mangiare, masticare, ingoiare, triturare, sminuzzare, spolpare, bere. Sinonimi eno-gastro-erotici di «sfruttare», cavarne i frutti. Siano essi sapori, consistenze o favori. Il corpo che si nutre di un altro corpo. Il serial killer che si gode due gomiti marinati chiede in fondo la stessa cosa che il sovrano presume dal suddito: disporre di un corpo in dispensa.
Giorgio Cappozzo