Margherita De Bac, Corriere della Sera 30/6/2014, 30 giugno 2014
«I NOSTRI GEMELLI NEL GREMBO DI UN’ALTRA IL PARTO SI AVVICINA MA SPERIAMO ANCORA»
ROMA — «Ma quale estate... Per noi le stagioni non esistono più. Da quel giorno tutto è uguale, grigio e doloroso. Ci hanno fatti sedere davanti a una scrivania e ci hanno detto, ci dispiace cari signori, c’è stato un errore, i vostri embrioni sono stati dati a un’altra coppia, arrivederci e grazie. Piangiamo molto, tutti e due. Stiamo stati abbandonati a noi stessi, dalle istituzioni e dallo Stato. Ed è questo che ci ferisce di più».
Quel giorno è il 17 aprile, un mercoledì che ha cambiato la vita di Angelica e Michele (ma non sono i loro nomi reali, preferiscono tutelare la propria identità), i genitori biologici di due gemelli, un maschio e una femmina, che ora stanno crescendo nel grembo della donna sbagliata per uno scambio avvenuto all’ospedale Pertini, lo scorso dicembre, durante un trattamento di procreazione medicalmente assistita.
Passeggiamo in loro compagnia lungo i viali di un parco al centro di Roma. Due persone semplici, ragionevoli e profondamente tristi. Non c’è luce nei loro sorrisi, di tanto in tanto gli occhi si velano di lacrime. Lei appare più forte e coraggiosa di lui che a tratti si commuove. Quando incrociamo un passeggino, si voltano istintivamente. Forse pensano a se stessi e a come sarebbero stati felici se tutto fosse andato come doveva.
Parlano con pacatezza. Sembra quasi che non abbiano voglia di combattere per riavere i bambini la cui nascita è prevista tra agosto e settembre. Invece dietro l’aspetto mite si cela la determinazione di andare fino in fondo, soprattutto dopo la provvidenziale sentenza della Corte di Strasburgo. La scorsa settimana i giudici europei hanno condannato la Francia per aver proibito il riconoscimento legale della relazione tra un padre biologico e i figli nati con la maternità surrogata (o utero in affitto), praticata in una clinica americana. Secondo la Corte, la negazione del legame ha posto i bambini in una «situazione di incertezza legale che mina l’identità dei piccoli nella società».
La storia di Angelica e Michele è diversa. Lo scambio di embrioni ha determinato quella che potrebbe essere considerata una maternità surrogata involontaria.
Il risultato però è lo stesso. L’appartenenza biologica che rischia di non essere riconosciuta. Vi sentite rinfrancati da questa sentenza che riafferma il diritto dei neonati?
«Rinfrancati è una parola grossa. Si riaccende però la speranza di riavere i nostri bambini. Noi abbiamo sempre pensato che i loro interessi dovessero essere messi al primo posto. E il loro bene è crescere nella loro vera famiglia, con i genitori che gli assomigliano e in cui si riconoscono perché hanno lo stesso naso, la stessa forma del viso, lo stesso modo di camminare. Perché privarli dei veri nonni? Dell’ambiente in cui se quell’errore non ci fosse stato sarebbero diventati grandi e che avrebbe influenzato il loro sviluppo culturale? Per poi un giorno dovergli rivelare la verità... No, tutto questo è profondamente ingiusto. Noi questi bambini li abbiamo desiderati, sono il nostro progetto di vita».
Siete pronti a una battaglia legale?
«Avremmo preferito la strada del dialogo con l’altra coppia e lo abbiamo cercato in tutte le maniere. Ma sono spariti e si sono sottratti alle nostre richieste non rispondendo a un’istanza da noi presentata all’ospedale Pertini dove chiedevamo che ci fossero comunicati i nominativi. Siamo convinti che se ci incontrassimo, noi quattro e basta, senza gli avvocati, potremmo trovare una soluzione, chissà. Il dialogo è importante. Invece ci hanno ignorati, sono fuggiti e non hanno pensato al bene dei gemelli che hanno dei veri genitori e siamo noi. Fossimo al loro posto non potremmo convivere col rimorso di coscienza di esserci presi ciò che non ci appartiene».
Vi siete arresi di fronte alla loro volontà di nascondersi?
«Macché arresi. Il termine dell’istanza scadeva la scorsa settimana. Abbiamo presentato un ricorso al Tar del Lazio dove chiediamo di poter conoscere il nome della signora nella quale erroneamente è avvenuto l’impianto di embrioni che hanno il nostro stesso Dna. Speravamo di non dover arrivare a tutto questo. Noi intendiamo far valere il diritto fondamentale a essere riconosciuti come genitori dei nostri figli. Ma prima di noi i bambini hanno diritto alla propria identità. Lei ci sente parlare come fossimo avvocati. Quanto avremmo desiderato non dover mai studiare leggi».
Com’è la vostra vita adesso?
«È una assenza di vita. Andiamo al lavoro indossando una maschera per non tradire le emozioni, tutto ci appare scialbo, piangiamo spesso. I bimbetti li sogniamo, cerchiamo di immaginarli, è come se li accarezzassimo. Il giorno del parto si avvicina ed è sempre più difficile sopportare questo dolore. Il pensiero che nascano lontano da noi è una violenza inaudita. Pensi, quando quel maledetto mercoledì 17 ci hanno mostrato la risposta dell’analisi del Dna ci siamo emozionati nel vedere quei colonnini che indicavano i caratteri dei nostri bambini. La loro fotografia genetica. Non vogliamo che rimanga l’unica».