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 2014  giugno 30 Lunedì calendario

IL CASO WULFF: ASCESA, CADUTA E VENDETTA DEL PRESIDENTE CHE ACCUSA LA GERMANIA


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO — Chi ha paura di Christian Wulff? Non tutti, almeno a giudicare dalle apparenze. Poche settimane dopo il suo epilogo, il caso dell’ex presidente costretto a lasciare l’incarico per una serie di scandali, veri o presunti, e poi totalmente prosciolto dalla magistratura (che ha anche rinunciato a presentare appello), sembra destinato ad essere digerito senza pesanti complicazioni. Nonostante la furibonda offensiva, pensata per lasciare il segno, che il grande inquisito ha lanciato contro la stampa e contro la giustizia. Il «Kennedy tedesco», come lo chiamavano, è ora un uomo solo che cura le molte ferite con la medicina della vendetta. Ha perso la seconda moglie, quindici anni più giovane di lui, che lo ha lasciato dopo la conclusione della sua avventura istituzionale. Con la fine del loro matrimonio, avvenuta tra dimissioni e assoluzione, era comunque calato il sipario su un’epoca minore. Quella di una Germania «carina», amante dei privilegi del potere, in cui il tatuaggio tribale sul braccio destro della bionda Bettina, accusata perfidamente di avere fatto in passato la escort, era diventato un po’ il nuovo simbolo dello Schloss Bellevue, il Quirinale berlinese.
Ganz oben, ganz unten (Molto in alto, molto in basso), il suo libro di memorie, si vende bene. È al primo posto nella saggistica. Ma Wulff non è riuscito a ottenere quella incondizionata solidarietà che sperava di ricevere. Con l’eccezione di un uomo dalla lingua tagliente come il socialdemocratico Peer Steinbrück, rivale di Angela Merkel nelle ultime elezioni, il mondo politico ha sostanzialmente guardato dall’altra parte. E il sessantasette per cento dei cittadini interpellati da un sondaggio dell’Istituto Forsa continua a ritenere «giusta» la scelta di fare un passo indietro, presa nel pieno di una tempesta che aveva scosso, nel febbraio 2012, una nomenklatura meno solida di quello che si può comunemente ritenere.
Wulff non ha risparmiato le bordate e non ha nascosto i risentimenti. «Sarei anche oggi la persona giusta nell’incarico di presidente», ha detto, mancando forse di rispetto al suo successore, l’ex pastore evangelico e leader del dissenso nella Ddr Joachim Gauck, e irritando anche coloro che avevano salutato con favore la avvenuta riabilitazione. Insomma, ha sguainato la spada. Sono ormai lontani i giorni dell’orgoglio silenzioso. Quando fu assolto, qualche mese fa, si limitò a dichiarare, uscendo dal tribunale di Hannover, che sarebbe tornato a prendere i figli a scuola «per far vivere loro un padre più sereno di quanto lo sia stato negli ultimi anni». «Sono stato vittima di una persecuzione», è invece il suo pensiero di adesso.
In realtà, va ricordato che contro Wulff aveva resistito solo un’accusa delle tante che si erano succedute in quel terribile inverno. Il tribunale di Hannover lo ha giudicato, alla fine, per il conto di un albergo di Monaco, durante l’Oktoberfest, pagato dall’amico produttore cinematografico David Groenewold in cambio di una raccomandazione per il finanziamento di un film. Tutte le altre imputazioni erano già cadute: un prestito e un mutuo a condizioni di favore per la costruzione di una villa (nessuna irregolarità, si accertò poi, almeno dal punto di vista penale), le vacanze pagate nell’isola di Sylt, i tanti favori ricevuti da un uomo che sembrava aver costruito, quando era alla guida della Bassa Sassonia, un sistema di potere ramificato. «Non ci sono prove», fu l’annuncio della Corte. L’onore perduto è stato restituito.
Quali sono gli elementi principali della campagna dell’ex presidente? «Media e magistratura si sono passati a vicenda la palla», ha tuonato. Per molte settimane è effettivamente sembrato che la giustizia indagasse su quello che scrivevano i giornali e che i giornali pubblicassero rivelazioni trapelate durante le inchieste. Sono stati setacciati migliaia di file, esaminati quarantacinque conti bancari, controllate trentasette linee telefoniche e perquisite otto abitazioni. Il conto finale è di quattro milioni di euro. Quando la Procura di Hannover decise di chiedere la revoca della sua immunità la stampa lo seppe immediatamente. Wulff, dopo un colloquio con Angela Merkel (che lo aveva scelto due anni prima per togliersi di torno un rivale pericoloso nel partito, in grado anche di aspirare alla cancelleria), non ebbe altra possibilità che fare le valigie. La sua presidenza è durata 598 giorni.
Adesso c’è però anche spazio per alcuni spunti di autocritica. Ammette di avere sbagliato andando in vacanza con un imprenditore. Definisce «un errore fatale» la telefonata al direttore di Bild Kai Diekmann e il messaggio lasciato sulla segreteria telefonica del giornalista in cui minacciava «una guerra» se l’inchiesta sul prestito fosse stata pubblicata. Fu quell’episodio, che sollevò le proteste dei media, a rappresentare una svolta irreversibile nelle fortune del numero uno della Bundesrepublik. La guerra è arrivata veramente, ma molto più tardi. Wulff ricorda ora con rabbia, per esempio, che i giornali continuarono a colpirlo perfino all’indomani della sua uscita di scena, quando furono in molti a chiedersi se non fosse opportuna una revoca del vitalizio presidenziale.
L’offensiva lanciata dal cinquantacinquenne ex «cavallo di razza» cristiano-democratico è stata accolta con un iniziale fuoco di sbarramento. «Respingiamo le accuse contro la stampa» fu il secco comunicato della Djv, l’associazione tedesca dei giornalisti. Toni più duri quelli di Meedia.de , secondo cui gli ultimi sviluppi della vicenda hanno confermato che «la presidenza Wulff è stata uno sbaglio». Modulata la posizione di Der Spiegel . Il settimanale di Amburgo ha riconosciuto che gli attacchi dell’ex presidente alla stampa «sono comprensibili dal suo punto di vista», ma ha aggiunto che le dimissioni erano indispensabili. Chi dispone di una buona memoria, nel mondo giornalistico tedesco, ricorda che l’allora governatore della Bassa Sassonia garantì di non avere mai avuto «nessun rapporto» con l’uomo d’affari che gli aveva anticipato il prestito di 500.000 euro utilizzato per comprare la casa nuova. Una bugia, detta per di più intervenendo nel Parlamento regionale, che continua ancora adesso a pesare.
Se questo è vero, è vero anche che la vicenda deve essere valutata in tutti i suoi risvolti. Ha interpretato questa esigenza la Süddeutsche Zeitung, secondo cui i media si sono rifiutati di provare a chiarire se sia stato Wulff o siano stati loro a «sbagliare tutto». «Forse — ha aggiunto il quotidiano — la verità come spesso accade sta nel mezzo». Fin qui i giornali. Ma il vero protagonista di una discussione che forse non è mai decollata è stato Steinbrück, convinto che «la lama affilata della libertà di stampa si sia trasformata in uno strumento di tortura». L’ex ministro delle Finanze (il cui intervento è apparso su Die Zeit , affiancato da un articolo molto equilibrato) ha rimpianto di aver perduto il momento giusto per «fare un gesto» nei confronti del suo antico avversario e ha definito «sorprendente» il «ruolo passivo» svolto dalla classe politica. In questo dramma teatrale, recitato dai poteri tedeschi, il palcoscenico rischia quindi di rimanere vuoto. Lo avevano riempito, in un giorno di gennaio del 2012, i manifestanti che sfilavano con le scarpe in mano di fronte alla residenza presidenziale per invocare le dimissioni del suo inquilino. Una immagine, questa, che Wulff non dimenticherà mai.