Franca Giansoldati, Il Messaggero 30/6/2014, 30 giugno 2014
«NELLA CHIESA NON DECIDO DA SOLO»
L’appuntamento è a Santa Marta, di pomeriggio. Una veloce verifica e uno svizzero mi fa accomodare in un piccolo salottino. Sei poltroncine verdi di velluto un po’ liso, un tavolino di legno, un televisore di quelli antichi, col pancione. Tutto in ordine perfetto, il marmo tirato a lucido, qualche quadro. Potrebbe essere una sala d’aspetto parrocchiale, una di quelle dove si va per chiedere un consiglio, o per fare i documenti matrimoniali. Francesco entra sorridendo: «Finalmente! Io la leggo e ora la conosco». Arrossisco. «Io invece la conosco e ora la ascolto». Ride. Ride di gusto, il Papa, come farà altre volte nel corso di un’ora e passa di conversazione a ruota libera. Roma con i suoi mali di megalopoli, l’epoca di cambiamenti che indeboliscono la politica; la fatica nel difendere il bene comune; la riappropriazione da parte della Chiesa dei temi della povertà e della condivisione («Marx non ha inventato nulla»), lo sgomento di fronte al degrado delle periferie dell’anima, scivoloso abisso morale in cui si abusa dell’infanzia, si tollera l’accattonaggio, il lavoro minorile e, non ultimo, lo sfruttamento di baby prostitute nemmeno quindicenni. E i clienti che potrebbero essere i loro nonni; «pedofili»: il Papa li definisce proprio così. Francesco parla, spiega, si interrompe, ritorna. Passione, dolcezza, ironia. Un filo di voce, sembra cullare le parole. Le mani accompagnano il ragionamento, le intreccia, le scioglie, sembrano disegnare geometrie invisibili nell’aria. E’ in ottima forma a dispetto delle voci sulla sua salute. E’ l’ora della partita Italia-Uruguay.
Santo Padre, lei per chi tifa?
«Ah io per nessuno, davvero. Ho promesso al presidente del Brasile (Dilma Roussef ndr) di restare neutrale».
Cominciamo da Roma?
«Ma lo sa che io Roma non la conosco? Pensi che la Cappella Sistina l’ho vista per la prima volta quando ho preso parte al conclave che elesse Benedetto XVI (2005 ndr). Non sono nemmeno mai stato ai musei. Il fatto è che da cardinale non venivo spesso. Conosco Santa Maria Maggiore perché ci andavo sempre. E poi San Lorenzo fuori le mura dove sono andato per delle cresime quando c’era don Giacomo Tantardini. Ovviamente conosco Piazza Navona perché ho sempre alloggiato a via della Scrofa, là dietro».
C’è qualcosa di romano nell’argentino Bergoglio?
«Poco e niente. Io sono più piemontese, sono quelle le radici della mia famiglia di origine. Tuttavia sto cominciando a sentirmi romano. Intendo andare a visitare il territorio, le parrocchie. Sto scoprendo poco a poco questa città. E’ una metropoli bellissima, unica, con i problemi delle grandi metropoli. Una piccola città possiede una struttura quasi univoca, una metropoli, invece, comprende sette o otto città immaginarie, sovrapposte, su vari livelli. Anche livelli culturali. Penso, per esempio, alle tribù urbane dei giovani. E’ così in tutte le metropoli. A novembre faremo a Barcellona un convegno dedicato proprio alla pastorale delle metropoli. In Argentina sono stati promossi degli scambi con il Messico. Si scoprono tante culture incrociate, ma non tanto per via delle migrazioni, ma perché si tratta di territori culturali trasversali, fatti di appartenenze proprie. Città nelle città. La Chiesa deve saper rispondere anche a questo fenomeno».
Perché lei, sin dall’inizio, ha voluto sottolineare tanto la funzione di Vescovo di Roma?
«Il primo servizio di Francesco è questo: fare il Vescovo di Roma. Tutti i titoli del Papa, Pastore universale, Vicario di Cristo eccetera, li ha proprio perché è Vescovo di Roma. E’ la scelta primaria. La conseguenza del primato di Pietro. Se domani il Papa volesse fare il vescovo di Tivoli è chiaro che mi cacceranno via».
Quarant’anni fa, sotto Paolo VI, il Vicariato promosse il convegno sui mali di Roma. Emerse il quadro di una città in cui chi aveva tanto aveva il meglio, e chi aveva poco il peggio. Oggi, a suo parere, quali sono i mali di questa città?
«Sono quelli delle metropoli, come Buenos Aires. Chi aumenta i benefici, e chi è sempre più povero. Non ero a conoscenza del convegno sui mali di Roma. Sono questioni molto romane, e io all’epoca avevo 38 anni. Sono il primo Papa che non ha preso parte al Concilio e il primo che ha studiato la teologia nel dopo Concilio e, in quel tempo, per noi la grande luce era Paolo VI. Per me la Evangelii Nuntiandi resta un documento pastorale mai superato».
Esiste una gerarchia di valori da rispettare nella gestione della cosa pubblica?
«Certo. Tutelare sempre il bene comune. La vocazione per qualsiasi politico è questa. Un concetto ampio che include, per esempio, la custodia della vita umana, la sua dignità. Paolo VI usava dire che la missione della politica resta una delle forme più alte di carità. Oggi il problema della politica - non parlo solo dell’Italia ma di tutti i Paesi, il problema è mondiale - è che si è svalutata, rovinata dalla corruzione, dal fenomeno delle tangenti. Mi viene in mente un documento che hanno pubblicato i vescovi francesi 15 anni fa. Era una lettera pastorale che si intitolava: Riabilitare la politica e affrontava proprio questo argomento. Se non c’è servizio alla base, non si può nemmeno capire l’identità della politica».
Lei ha detto che la corruzione odora di putrefazione. Ha detto anche che la corruzione sociale è il frutto del cuore malato e non solo di condizioni esterne. Non ci sarebbe corruzione senza cuori corrotti. Il corrotto non ha amici ma utili idioti. Ce lo spiega meglio?
«Ho parlato due giorni di seguito di questo argomento perché commentavo la lettura della Vigna di Nabot. A me piace parlare sulle letture del giorno. Il primo giorno ho affrontato la fenomenologia della corruzione, il secondo giorno di come finiscono i corrotti. Il corrotto, comunque, non ha amici, ma ha solo complici».
Secondo lei si parla così tanto della corruzione perché i mass media insistono troppo sull’argomento, o perché effettivamente si tratta di un male endemico e grave?
«No, purtroppo è un fenomeno mondiale. Ci sono capi di Stato in carcere proprio per questo. Mi sono interrogato molto, e sono arrivato alla conclusione che tanti mali crescono soprattutto durante i cambi epocali. Stiamo vivendo non tanto un’epoca di cambiamenti, ma un cambio di epoca. E quindi si tratta di un cambio di cultura; proprio in questa fase emergono cose del genere. Il cambiamento d’epoca alimenta la decadenza morale, non solo in politica, ma nella vita finanziaria o sociale».
Anche i cristiani sembrano non brillare per testimonianza...
«È l’ambiente che facilita la corruzione. Non dico che tutti siano corrotti, ma penso sia difficile rimanere onesti in politica. Parlo dappertutto, non dell’Italia. Penso anche ad altri casi. A volte vi sono persone che vorrebbero fare le cose chiare, ma poi si trovano in difficoltà ed è come se venissero fagocitate da un fenomeno endemico, a più livelli, trasversale. Non perché sia la natura della politica, ma perché in un cambio d’epoca le spinte verso una certa deriva morale si fanno più forti».
A lei spaventa più la povertà morale o materiale di una città?
«Mi spaventano entrambe. Un affamato, per esempio, posso aiutarlo affinché non abbia più fame, ma se ha perso il lavoro e non trova più occupazione, ha a che fare con un’altra povertà. Non ha più dignità. Magari può andare alla Caritas e portarsi a casa un pacco viveri, ma sperimenta una povertà gravissima che rovina il cuore. Un vescovo ausiliare di Roma mi ha raccontato che tante persone vanno alla mensa e di nascosto, piene di vergogna, portano a casa del cibo. La loro dignità è progressivamente depauperata, vivono in uno stato di prostrazione».
Per le strade consolari di Roma si vedono ragazzine di appena 14 anni spesso costretta a prostituirsi nella noncuranza generale, mentre nella metro si assiste all’accattonaggio dei bambini. La Chiesa è ancora lievito? Si sente impotente come vescovo davanti a questo degrado morale?
«Provo dolore. Provo enorme dolore. Lo sfruttamento dei bambini mi fa soffrire. Anche in Argentina è la stessa cosa. Per alcuni lavori manuali vengono usati i bambini perché hanno le mani più piccole. Ma i bambini vengono anche sfruttati sessualmente, in alberghi. Una volta mi avvertirono che su una strada di Buenos Aires c’erano ragazzine prostitute di 12 anni. Mi sono informato ed effettivamente era così. Mi ha fatto male. Ma ancora di più vedere che si fermavano auto di grossa cilindrata guidate da anziani. Potevano essere i loro nonni. Facevano salire la bambina e la pagavano 15 pesos che poi servivano comprare gli scarti della droga, il "pacco". Per me sono pedofili queste persone che fanno questo alle bambine. Succede anche a Roma. La Città eterna che dovrebbe essere un faro nel mondo è specchio del degrado morale della società. Penso siano problemi che si risolvono con una buona politica sociale».
Che cosa può fare la politica?
«Rispondere in modo netto. Per esempio con servizi sociali che seguono le famiglie a capire, accompagnandole ad uscire da situazioni pesanti. Il fenomeno indica una deficienza di servizio sociale nella società».
La Chiesa però sta lavorando tantissimo...
«E deve continuare a farlo. Bisogna aiutare le famiglie in difficoltà, un lavoro in salita che impone lo sforzo comune».
A Roma sempre più giovani non vanno in chiesa, non battezzano i figli, non sanno nemmeno farsi il segno della Croce. Che strategia serve per invertire questo trend?
«La Chiesa deve uscire nelle strade, cercare la gente, andare nelle case, visitare le famiglie, andare nelle periferie. Non essere una chiesa che riceve soltanto, ma che offre».
E i parroci non devono mettere i bigodini alle pecore...
(Ride)«Ovviamente. Siamo in un momento di missione da una decina d’anni. Dobbiamo insistere».
La preoccupa la cultura della denatalità in Italia?
«Penso si debba lavorare di più per il bene comune dell’infanzia. Mettere su famiglia è un impegno, a volte non basta lo stipendio, non si arriva alla fine del mese. Si ha paura di perdere il lavoro o di non potere più pagare l’affitto. La politica sociale non aiuta. L’Italia ha un tasso bassissimo di natalità, la Spagna lo stesso. La Francia va un po’ meglio ma è bassa anche lei. E’ come se l’Europa si fosse stancata di fare la mamma, preferendo fare la nonna. Molto dipende dalla crisi economica e non solo da una deriva culturale improntata all’egoismo e all’edonismo. L’altro giorno leggevo una statistica sui criteri di spesa della popolazione a livello mondiale. Dopo alimentazione, vestiti e medicine, tre voci necessarie, seguono la cosmetica e le spese per animali domestici».
Contano più gli animali che i bambini?
«Si tratta di un altro fenomeno di degrado culturale. Questo perché il rapporto affettivo con gli animali è più facile, maggiormente programmabile. Un animale non è libero, mentre avere un figlio è una cosa complessa».
Il Vangelo parla di più ai poveri o ai ricchi per convertirli?
«La povertà è al centro del Vangelo. Non si può capire il Vangelo senza capire la povertà reale, tenendo conto che esiste anche una povertà bellissima dello spirito: essere povero davanti a Dio perché Dio ti riempie. Il Vangelo si rivolge indistintamente ai poveri e ai ricchi. E parla sia di povertà che di ricchezza. Non condanna affatto i ricchi, semmai le ricchezze quando diventano oggetti idolatrati. Il dio denaro, il vitello d’oro».
Lei passa per essere un Papa comunista, pauperista, populista. L’Economist che le ha dedicato una copertina afferma che parla come Lenin. Si ritrova in questi panni?
«Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. I poveri sono al centro del Vangelo. Prendiamo Matteo 25, il protocollo sul quale noi saremo giudicati: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ignudo. Oppure guardiamo le Beatitudini, altra bandiera. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlano si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani» (ride).
Se mi permette una critica..
«Certo...»
Lei forse parla poco delle donne, e quando ne parla affronta l’argomento solo dal punto di vista del maternage, la donna sposa, la donna madre, eccetera. Eppure le donne ormai guidano Stati, multinazionali, eserciti. Nella Chiesa, secondo lei, le donne che posto occupano?
«Le donne sono la cosa più bella che Dio ha fatto. La Chiesa è donna. Chiesa è una parola femminile. Non si può fare teologia senza questa femminilità. Di questo, lei ha ragione, non si parla abbastanza. Sono d’accordo che si debba lavorare di più sulla teologia della donna. L’ho detto e si sta lavorando in questo senso».
Non intravede una certa misoginìa di fondo?
«Il fatto è che la donna è stata presa da una costola.. (ride di gusto). Scherzo, la mia è una battuta. Sono d’accordo che si debba approfondire di più la questione femminile, altrimenti non si può capire la Chiesa stessa».
Possiamo aspettarci da lei decisioni storiche, tipo una donna capo dicastero, non dico del clero...
(ride) «Beh, tante volte i preti finiscono sotto l’autorità delle perpetue...»
Ad agosto lei andrà in Corea. E’ la porta per la Cina? Lei sta puntando sull’Asia?
«In Asia andrò due volte in sei mesi. In Corea ad agosto per incontrare i giovani asiatici. A gennaio nello Sri Lanka e nelle Filippine. La Chiesa in Asia è una promessa. La Corea rappresenta tanto, ha alle spalle una storia bellissima, per due secoli non ha avuto preti e il cattolicesimo è avanzato grazie ai laici. Ci sono stati anche martiri. Quanto alla Cina si tratta di una sfida culturale grande. Grandissima. E poi c’è l’esempio di Matteo Ricci che ha fatto tanto bene...»
Dove sta andando la Chiesa di Bergoglio?
«Grazie a Dio non ho nessuna Chiesa, seguo Cristo. Non ho fondato niente. Dal punto di vista dello stile non sono cambiato da come ero a Buenos Aires. Sì, forse qualcosina, perché si deve, ma cambiare alla mia età sarebbe stato ridicolo. Sul programma, invece, seguo quello che i cardinali hanno chiesto durante le congregazioni generali prima del conclave. Vado in quella direzione. Il Consiglio degli otto cardinali, un organismo esterno, nasce da lì. Era stato chiesto perché aiutasse a riformare la curia. Cosa peraltro non facile perché si fa un passo, ma poi emerge che bisogna fare questo o quello, e se prima c’era un dicastero poi diventano quattro. Le mie decisioni sono il frutto delle riunioni pre conclave. Nessuna cosa l’ho fatta da solo».
Un approccio democratico...
«Sono state decisioni dei cardinali. Non so se un approccio democratico, direi più sinodale, anche se la parola per i cardinali non è appropriata».
Cosa augura ai romani per i Patroni San Pietro e Paolo?
«Che continuino a essere bravi. Sono tanto simpatici. Lo vedo nelle udienze e quando vado nelle parrocchie. Auguro loro di non perdere la gioia, la speranza, la fiducia nonostante le difficoltà. Anche il romanaccio è bello».
Wojtyla aveva imparato a dire, volemose bene, damose da fa’. Lei ha imparato qualche frase in romanesco?
«Per ora poco. Campa e fa’ campa’». (Naturalmente ride).