Emanuele Trevi, Corriere della Sera - La Lettura 29/6/2014, 29 giugno 2014
DIGIUNO È VIVERE NELL’IMPOSSIBILE NON UN’ARTE PER ROMANTICI
Credo che Franz Kafka, attentissimo lettore di giornali, non avrebbe trascurato la notizia di Papa Bergoglio che telefona a Marco Pannella per convincerlo a interrompere un digiuno totale che rischiava di portarlo alla morte. Il rappresentante di una secolare tradizione di digiuni penitenziali chiedeva di fermarsi in tempo a colui che più di ogni altro ha fatto dell’astensione dal cibo (e dall’acqua) un’arma di protesta. A parte l’eccezionale levatura umana di entrambi i suoi protagonisti, questo aneddoto sembra condensare perfettamente la direzione fondamentale della lunga storia universale del digiuno: dall’ascesi religiosa alla politica. Ma nel dialogo tra Bergoglio e Pannella c’è un ulteriore elemento, indiscutibilmente «kafkiano» e capace di rendere la pratica del digiuno un simbolo dai significati davvero inesauribili. In una specie di nobile gioco delle parti, infatti, il digiunatore incarna una tensione all’illimitato che il suo interlocutore tenta di contenere, e per così dire di addomesticare. In ogni vero digiunatore agisce il desiderio di andare fino in fondo. Bisogna convincerlo, o costringerlo, a smettere.
È questo il nucleo di quello splendido racconto di Kafka il cui titolo è tradotto in genere Un digiunatore , anche se l’originale tedesco, Ein Hungerkünstler , letteralmente «un artista del digiuno», non solo è più poetico, ma allude a significati ben precisi, anche se difficili da immaginare per il lettore di oggi. Ricostruire questo mondo, con sensibilità di scrittore e perizia di erudito, è lo scopo di un prezioso libretto di Raoul Precht, romanziere e traduttore, fra gli altri, di Schiller e Handke. Composto e pubblicato per la prima volta in rivista nel 1922, il racconto di Kafka (in questi giorni pubblicato da Nutrimenti, Kafka e il digiunatore, pagine 100, e 10) si riferisce a un modello di «artista della fame» che non ha nulla a che vedere né con la mistica né con la politica. I grandi digiunatori dei tempi di Kafka, infatti, sono attrazioni da fiera, o da Circo Barnum, non molto dissimili dall’esercito di freaks che gli impresari offrivano allo sguardo dei curiosi in cambio del modico prezzo di un biglietto. È vero che Kafka inizia il suo racconto constatando che «negli ultimi decenni l’interesse per i digiunatori è molto diminuito», ma pochi lettori hanno colto l’esattezza storica dell’informazione, scambiandola per un puro arbitrio introduttivo di una costruzione del tutto fantastica.
Ma qui sta esattamente la differenza tra i mediocri e i geni: i primi inventano, mentre i secondi, come fa Kafka, sanno cavare da qualunque realtà energie simboliche segrete e insospettabili, più sorprendenti di qualunque fantasia. Precht ci fa conoscere un Kafka così appassionato di spettacoli da circo e baracconi da fiera da divorare avidamente riviste specializzate come «Artist» e «Proscenium». E le esibizioni pubbliche dei digiunatori, nell’età d’oro di quest’arte a cavallo tra Otto e Novecento, si svolgevano esattamente come le descrive Kafka nel suo racconto. Trascorrevano i giorni del digiuno che durava circa un mese, in una gabbia di vetro, esposti al pubblico e controllati da guardiani che vegliavano su possibili spuntini clandestini.
È proprio questa la macchia sulla carriera del più celebre digiunatore dei suoi tempi, una vera gloria italiana di nome Giovanni Succi, nato a Cesenatico nel 1850, sorpreso nel 1896 da un medico, durante un’esibizione all’Hotel Royal di Vienna, mentre pasteggiava a bistecche e champagne. Per un digiunatore professionista, doveva essere una situazione simile a quella di atleta di oggi sorpreso dall’antidoping.
Precht giustamente indugia su questi buffi frammenti di un mondo perduto, dimostrandoci ancora una volta l’incredibile capacità trasfiguratrice di Kafka, per il quale non esisteva al mondo nulla di così triviale da non celare in sé una scintilla metafisica e filosofica. Il grande nemico del suo «artista del digiuno» non è la fame né la diffidenza del pubblico, ma l’impresario che gli proibisce di proseguire il digiuno oltre il biblico termine dei quaranta giorni. Leggere questo racconto come una semplice allegoria dell’artista non compreso dai suoi simili equivarrebbe a un impoverimento, a un atto di pigrizia. L’artista kafkiano della fame, in fin dei conti, muore senza gloria, e non può vantare nessun merito. Semplicemente, come confida spirando, non ha mai trovato un cibo che gli piacesse mangiare. Più che l’ultimo eroe romantico, è il primo di una nuova specie: la specie di coloro che non possono essere diversi da quello che sono. Per questa razza d’uomini, vivere nell’impossibile è la cosa più facile del mondo.