Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 29/6/2014, 29 giugno 2014
GINA, LA GOVERNANTE MORTA IN POVERTÀ CHE SI SPOGLIAVA DEI REGALI DI MONTALE
In una fotografia scattata il 7 dicembre 1975 su un volo delle linee aeree scandinave che viaggiava da Milano a Stoccolma, si vede di profilo il vecchio Eugenio Montale che si porta alle labbra una sigaretta. Alla sua destra, nell’ombra aumentata dalla luce abbagliante che entra dal finestrino, si indovina il viso di una donna dall’ampia pettinatura scura, deve aver fatto da poco la permanente. Quella signora si chiamava Gina Tiossi, era la governante del neoeletto premio Nobel e aveva allora 53 anni.
Chi ha conosciuto la Gina, nell’appartamento di via Bigli 15, ne parla come di una assistente, più che della domestica, della guardiana del faro, dell’«occhio vigile» non solo per sopperire alla vista lacunosa del poeta, ma anche per tenere a distanza i tanti rompiscatole. Toccava a lei interpretare i suoi desideri, scrisse Enzo Biagi. Toscana, nata nel 1922 a Cavriglia, in campagna, entrò nell’autunno ‘44 al servizio della Mosca ammalata, ovvero di Drusilla Tanzi, ex signora Marangoni e non ancora moglie di Montale: la quale dal ‘39 si era trasferita con il poeta in un appartamento fiorentino di viale Duca di Genova 38/A. La Mosca era stata colpita da una grave forma di spondilite e fu il suo medico curante a indicarle, per un aiuto, la ragazza di Cavriglia. Da allora, quella esile donna che aveva frequentato sì e no le elementari, figlia di contadini del Valdarno, svegliandosi all’alba tutti i giorni per raggiungere in pullman Firenze, diventa una presenza irrinunciabile per Eugenio e per la Mosca. Al punto che quando, nel 1948, la coppia si trasferisce a Milano, dove Montale ha trovato «un posto di lavoro soddisfacente» al Corriere , Drusilla, il «piccolo insetto», vorrà con sé anche la fedele Gina. Non può sapere che sarà lei, Gina, ad accompagnare nella vecchiaia il suo Eugenio, perché solo pochi mesi dopo il sospirato matrimonio, avvenuto nell’aprile 1963, la Mosca morirà in seguito a una caduta.
La poesia di Montale è abitata da tante muse, ma nel bilancio totale è la Gina Tiossi la figura femminile più assidua nella sua vita, senza implicazioni sentimentali: una presenza discreta, lasciata in eredità al neomarito dalla stessa Mosca, che morendo tra le sue braccia, le fece promettere di occuparsi del futuro vedovo. E Gina ha mantenuto, se è vero che toccherà a lei assistere, in una stanza della Clinica San Pio X, il poeta morente la sera del 12 settembre 1981. E lei deve essere stata la custode di tanti segreti domestici, compreso qualche deragliamento amoroso del poeta.
Quando una giornalista italo-canadese, Dara Kotnik, provò a penetrare la quotidianità del senatore intervistando la Gina, si sentì rispondere: «Che c’entro io, capisco se avessero dato il Nobel delle serve... Dica che non esisto, che al mio posto c’è una Carolina qualunque». Era lei, però, l’unico filtro tra Montale e il mondo, e si poteva capire l’interesse della cronista, che la descrisse come una cipolla di discrezione. E infatti insistendo saltò fuori la sua devozione: «Che cosa posso dire di lui? Che è buono, che è grande, che è dolce, che io lo considero come un padre». Non soltanto rispondeva al telefono, preparava da mangiare e stirava le camicie, non solo dirigeva il traffico delle visite, lo aiutava anche a vestirsi, era con lui nei pochi viaggi, lo teneva a braccetto nelle passeggiate pomeridiane attorno alla Scala, passava ore con lui a guardare la tv. Niente di più e niente di meno. Moltissimo, in verità.
Nelle poesie di Montale, il suo nome non assurge ai fulgori di Clizia, della Mosca o della Volpe, ma compare in testi memorabili. Nel componimento «Il rondone», contenuto nel Diario del ’71 , la si vede raccogliere dal marciapiede un uccello moribondo, «le ali ingrommate di catrame»: «Gina che lo curò sciolse quei grumi / con batuffoli d’olio e di profumi, / gli pettinò le penne, lo nascose / in un cestino appena sufficiente / a farlo respirare». Chissà se il poeta non si identifichi nel rondone che la guarda riconoscente. Una musa minore, ma neanche poi tanto. Nel Quaderno di quattro anni la governante in cucina accende una candela per i suoi morti: «Bisogna risalire a quando era bambina / e il caffelatte era un pugno di castagne secche». C’è un padre piccolo e vecchio, ci sono le scarpinate, il vino dolce, la povertà e la piccola Gina che porta al pascolo i porcellini.
Nella sua stanza, la Gina raccoglieva i regali del poeta, prime edizioni con dedica, disegni, biglietti autografi, libri rari talora fuori commercio. Oltre alle opere grafiche e ai quadretti, quasi cinquecento volumi, tra cui un’edizione degli Ossi di seppia annotata da Vittorini e una copia di Senilità firmata da Svevo. Anche le 50 lettere a Drusilla. Un piccolo patrimonio di cui Gina Tiossi non ha mai voluto fare mercato: tant’è che negli anni ne ha fatto dono gratuito al Fondo manoscritti di Pavia. E qualche mese fa ha aggiunto, tra l’altro, la macchina da scrivere di Montale, il suo bastone, gli occhiali: gli oggetti più cari, forse, quelli da cui ha voluto separarsi solo in extremis. Fedeltà è la parola che la descrive meglio: fedeltà gratuita, diversamente da tanti eredi di sangue. Pare che a un certo punto il poeta volesse affiliarsela per garantirle qualche sostanza: lei rifiutò, per non violare la memoria dei suoi genitori, gente umile dell’Appennino. Dopo la morte di Montale, si è trasferita a Firenze, dove da anni ha vissuto in solitudine con la sua pensione da colf in un modesto appartamento in via Quintino Sella che ha lasciato a un’opera benefica.