Paolo Nori, Libero 28/6/2014, 28 giugno 2014
COME LA CODA DEL MAIALE
Martedì scorso, ero al mare, son passato davanti a un centro di bellezza che si chiama Buccia d’arancia e ho pensato che era un nome stranissimo, come se un ambulatorio dentistico si chiamasse La carie, o Il tartaro, o come se un ristorante vegetariano si chiamasse La braciola, o La salsiccia, o come se un quotidiano si chiamasse La disinformazione, o un’associazione sportiva si chiamasse La sconfitta disonorevole; e mi è venuto in mente, eran le tre del pomeriggio, e era il giorno della partita dei mondiali Italia-Uruguay, mi è venuto in mente che era come se un attaccante di movimento si chiamasse Immobile e, adesso è facile è dirlo, che l’Italia ha perso, ma io l’ho pensato prima della partita, e m’è tornata in mente una cosa che avevo pensato tempo fa, l’ultima volta che ero andato allo stadio, e avevo pensato a tutte le volte che c’ero andato nella mia vita, quasi tutte allo stadio di Parma, quando il Parma giocava in serie C, o in serie B, e io, di tutte queste partite, quante saran state? quindici all’anno per quindici anni, duecentoventicinque, se pensavo a quelle partite mi venivano in mente le facce della gente che arrivava allo stadio, insieme a me, quando arrivavamo, che non avevamo le facce di gente che andava, dico una parola grossa, a divertirsi, no. Che per me, poi, tra l’altro, quello lì era un pregio, perché i posti dove la gente si divertiva, come, all’epoca, le discoteche, eran posti tristissimi, per me, invece alle partite di calcio quando arrivavamo allo stadio avevamo le facce di gente che eran preoccupati, tesi, come se dovevamo passare un esame, che poi era un esame che non lo davam neanche noi, come se assistevano a un esame che ci tenevamo tantissimo che andava bene e non potevamo fare niente, hai voglia studiare, interrogavano un altro, una cosa che il senso a mi sfuggiva, a pensarci. E se uno avesse chiesto «Ma il senso non è vincere?», io avrei risposto che va be’, avevo capito, vincere, ma vincere, non so, io mi ricordavo, l’Italia, i mondiali, le due volte che aveva vinto che io mi ricordavo, la gente sopra le macchine, con le bandiere, con le facce pitturate di blu, o di tricolore, a gridare, a suonare il clacson, a bere, non so, io non l’avevo mica mai tanto capito, che gusto c’era, a vincere, e secondo me, mi sbaglierò, ma quando perdevi, che poi non perdevi te, perdevano loro, ma a te ti dispiaceva, che magari perdevi quattro a zero, o cinque a uno, che nell’andare a casa guardavi per terra e vedevi tutte le foglie, tutte le crepe che c’erano sull’ asfalto e ti veniva da pensare a tutto quello che non andava bene nella tua vita, a tutte le cose che ti eri ripromesso che le facevi e poi non le avevi fatte, tutto il freddo che avevi preso, ecco secondo me, quei momenti lì, che te ti chiedevi «Ma che vita sto facendo?», ecco secondo me, eran momenti che a me piacevan di più, di quando eri in centro, imbottigliato sopra una macchina che cantavi l’inno nazionale con una bandiera in mano e la faccia dipinta di blu, o di tricolore, o di biancocrociato o di qualsiasi altro colore.