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 2014  giugno 28 Sabato calendario

FUTURO NERO PER IL PETROLIO ORA SI TEME UNA NUOVA CRISI


Gli automobilisti se ne sono già accorti: molti Paesi produttori di petrolio hanno problemi, il prezzo del greggio, dopo un lungo periodo di stabilità, è aumentato del 12-15% e le compagnie non hanno perso tempo per rifarsi sui consumatori con due aumenti nel giro di pochi giorni. Purtroppo, il fenomeno potrebbe accentuarsi, perché le «aree di turbolenza» si moltiplicano e l’aumento della produzione americana, dovuta al fracking, non è per ora in grado di compensare l’incertezza delle altre fonti, perché una vecchia legge vieta agli Stati Uniti di esportare il suo oro nero.
Il fattore scatenante della crisi è stata la guerra civile in Irak, che è il Paese con le maggiori riserve di petrolio al mondo dopo l’Arabia Saudita. Per adesso, non ci sono annunci che la produzione, di poco superiore ai tre milioni di barili al giorno, abbia subito un significativo rallentamento, perché i maggiori giacimenti si trovano nel Sud tuttora controllato dal governo e nel Nord controllato dai curdi. Ma la situazione sul campo sta peggiorando, la principale raffineria del Paese è contesa tra esercito e insorti, e l’incertezza sul futuro ha pressoché bloccato gli investimenti delle compagnie internazionali, compresa quella cinese, che avrebbero dovuto, nel giro dei prossimi vent’anni, portare la produzione addirittura a nove milioni di barili al giorno.
Se l’Irak fosse un caso isolato, il mercato non avrebbe reagito in modo così negativo. Purtroppo, esso si aggiunge a una serie di altre situazioni critiche. L’export della Libia, che per l’Italia era una volta la fonte principale, è ridotto da tempo a un decimo dell’anteguerra, e le milizie che tengono in ostaggio pozzi, oleodotti e terminali non accennano a mollare la presa. L’Iran è tuttora soggetto alle sanzioni dell’Onu, appena attenuate dalle vendite «clandestine» (a prezzi stracciati) a Paesi come la Cina e la Corea del Nord, e i suoi potenziali quattro milioni di barili al giorno di greggio non potranno tornare legalmente sul mercato fino a quando non accetterà di rinunciare alla bomba nucleare. La Nigeria, principale produttore africano, è scossa dal conflitto tra gli jihadisti del Boko Haram e le forze governative e si trova alla vigilia di difficili elezioni che potrebbero creare problemi anche nelle regioni meridionali (comunque già infestate dai pirati) in cui sono concentrati i giacimenti petroliferi. Infine, c’è il caso tutto particolare del Venezuela, dove la nazionalizzazione dei pozzi ad opera del defunto caudillo Chavez ha portato, con la fine degli investimenti stranieri, a una graduale ma inarrestabile diminuzione della produzione che sta facendo saltare il bilancio dello Stato.
Ci sono poi le crisi latenti, che contribuiscono a loro volta al nervosismo del mercato. Che cosa accadrà alle esportazioni russe, si domandano gli operatori, se l’inasprirsi della rivolta filorussa nell’Ucraina orientale inducesse l’Occidente a imporre a Mosca un terzo round di sanzioni, o se le minacciate ritorsioni del Cremlino alla firma, ieri a Bruxelles, del trattato di associazione di Kiev alla Ue si traducessero in una forma anche transitoria di boicottaggio? E, peggio ancora, quali sarebbero le conseguenze dello scoppio di una possibile «primavera» in Arabia Saudita, che regolando la sua produzione in base alla domanda ha sempre svolto un ruolo stabilizzatore essenziale per i Paesi importatori? È vero che, almeno per il momento, altre fonti importanti come gli Emirati, il Messico, il Kazakhstan, l’Angola e la Norvegia non presentano problemi, e che il rapido aumento della produzione americana (e i conseguenti minori acquisti da parte degli Usa all’estero) funziona da cuscinetto. Ma è altrettanto vero che la fame di petrolio dei grandi Paesi emergenti non accenna a diminuire. Il clima si è decisamente deteriorato, e chi si appresta a partire in vacanza potrebbe avere altre spiacevoli sorprese.