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 2014  giugno 28 Sabato calendario

DENTRO LA STANZA DI VERMEER DOVE LA VITA ACQUISTA UN SENSO


Che il tempo sia la questione artistica e filosofica per eccellenza, infinitamente più complessa del senso dello spazio, è una petizione di principio, per non dire un pregiudizio, difficile da scalfire. Almeno dai tempi di Kant, sua maestà il tempo governa sullo spazio come un sovrano che ha sempre cose più importanti da sbrigare. Ma c’è di peggio: ogni volta che il povero spazio riesce a inventare qualcosa di interessante (un paradosso geometrico, il fantasma di un’ulteriore dimensione...) ecco che il tempo, geloso di quel sussulto di indipendenza, si affretta a riaffermare il suo ruolo di premessa e spiegazione ultima di tutti i fenomeni. Fosse solo una questione di storia della filosofia, pazienza. Ma questa ossessione del tempo modifica il senso comune, dà forma alle nostre emozioni, ci costringe a pensare alla nostra vita come a un calendario o a una clessidra. E soprattutto finisce per determinare una specie di immenso conformismo spirituale, perché il tempo, nonostante tutte le apparenze, è uguale per tutti molto più della legge, e produce all’incirca le stesse reazioni automatiche in ognuno di noi.
Come in tanti altri casi, per scuotere un po’ questa abitudine del pensiero è benefica l’osservazione degli animali, e in particolare degli animali domestici. Pochi esseri umani sono capaci come loro di spremere da un dato luogo tutta la sua riserva di significati, accontentandosi del presente. Per questo motivo, sono fermamente convinto che, in una delle sue vite precedenti, Jan Vermeer sia stato un gatto. Non so se nella sua breve e misteriosa esistenza da pittore olandese ricordasse con nostalgia la precedente condizione. I comuni mortali dimenticano le loro incarnazioni, ma si dice che il privilegio degli spiriti supremi sia proprio quello di ricordarle perfettamente, e di farne tesoro.
Prima ancora delle sue stanze, consideriamo quell’eccelsa «Veduta di Delft» che Proust, con molte buone ragioni, considerava il quadro più bello mai dipinto. Gli esperti ci dicono che il punto di vista del pittore potrebbe essere quello che si gode dal primo piano di una casa. Ma visto che nessuno di noi era lì, non costa nulla pensare a un pingue gattone di casa accoccolato sul davanzale, a dare un’occhiata alla vita in città dopo un temporale estivo. Ma qualcosa, un rumore o un odore, improvvisamente lo spinge a saltare giù, tornando nel pieno possesso di quella casa che considera una sua proprietà e quasi un’appendice, una protesi del suo corpo e dei suoi sensi. Tutto gli appartiene, e tutto gli è indifferente lì dentro: gli scacchi bianchi e neri dei pavimenti, le spinette, le carte geografiche appese ai muri, le caraffe di porcellana bianca per il vino, le ragazze da marito o quelle già maritate che imparano a suonare, ricevono visite, leggono lettere che non dovrebbero leggere, tirano fuori dagli scrigni intarsiati quei fili di perle che sembrano i più puri simboli della felicità terrena. Il gatto-pittore sa una cosa che sfugge a quasi tutti: la vita in sé non suscita nessuna meraviglia, è una parola astratta, la più astratta delle parole assieme alla morte. È come la luce bianca, inconcepibile, che precede la nascita dei colori.
Dunque un grande artista, come un vero gatto di casa, per suscitare in sé la meraviglia, deve essere capace di ricavare il concreto dall’astratto. E se la vita è un prodigio invece che una parola, ciò si deve al fatto che ogni gesto, ogni minimo trasalimento, e anche i pensieri più segreti e inconfessabili accadono in uno spazio che non è affatto la loro cornice neutra e intercambiabile, ma la condizione che li rende veri, unici, irripetibili. Anche il condannato a morte di Edgar Allan Poe, rinchiuso nella più buia delle segrete, percorrendone con la mano le pareti umide disegna una stanza, e questo gesto è l’inizio della sua improbabile salvezza.
Per gli stessi motivi, possiamo dimenticare nomi e volti, ma se non siamo in grado di localizzare un ricordo, quasi sempre si tratta di un inganno della memoria. Del grande poema di Vermeer è questo il nucleo, la cellula ritmica fondamentale: con tutte le sue gioie, i suoi peccati, le sue virtù e i suoi colori l’esistenza, se vale davvero la pena dipingerla, è sempre uno stato in luogo, qualcosa che trascorre mentre la abitiamo.