Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 28/6/2014, 28 giugno 2014
PERCHÉ LA MINACCIA NO TAV NON È TERRORISMO
Lanciare bottiglie incendiarie e bombe carta su un cantiere dove una decina di operai lavoravano durante il turno di notte non significa automaticamente commettere un atto di terrorismo. Nemmeno se quell’azione aveva lo scopo di «arrecare grave danno all’Italia e all’Unione europea», oltre che «costringere i legittimi poteri nazionali ed europei ad astenersi dal realizzare e finanziarie le opere relative alla linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione», come ritengono gli inquirenti. Non basta che l’atto violento si prefigga un obiettivo, bisogna avere la concreta possibilità di realizzarlo. Per l’assalto avvenuto a Chiomonte, in provincia di Torino, nella notte tra il 13 e il 14 maggio 2013, quattro persone di età comprese fra i 23 e 41 anni sono in carcere da dicembre con l’accusa di terrorismo, per l’appunto. Ma ora la Corte di cassazione spiega con un’articolata motivazione che la tesi della Procura di Torino, del giudice che ha ordinato gli arresti e del tribunale del Riesame che li ha confermati va formulata con argomenti più convincenti. Altrimenti non regge.
La ricostruzione dei fatti è «piuttosto confusa», e i danni provocati un po’ troppo modesti. Il che non è sufficiente a cancellare definitivamente la grave accusa, ma bisogna motivarla con argomenti più convincenti. Secondo la corte suprema, per sostanziare un «attentato per finalità terroristiche o di eversione» non è sufficiente che chi lo compie voglia creare un «grave danno alle istituzioni», bensì è necessario che i fatti contestati «possano determinare quel danno, e dunque siano idonei in quel senso».
Applicato all’episodio specifico, ciò si traduce nella deduzione che l’assalto al cantiere di Chiomonte non aveva questa potenzialità; o comunque non è dimostrato che l’avesse. «Il fine di condizionamento politico è del tutto inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche», scrivono i giudici della corte suprema, ed è da escludersi che «possa e debba parlarsi di terrorismo per qualunque pressione esercitata su un pubblico ufficiale, sia pure mediante la commissione di un reato». In un altro passaggio la Cassazione ammonisce: «Una ipotetica deriva dell’ordinamento verso la qualificazione “terroristica” di ogni reato politicamente motivato sarebbe inammissibile».
Che si potesse realmente condizionare la volontà a proseguire i lavori dell’Alta velocità attraverso l’attacco di Chiomonte, o addirittura costringere a interromperli, per i giudici è per lo meno dubbio. Mentre la legge impone che dubbi non ce ne siano. L’atto terroristico «deve rendere attendibile la prospettiva di “costrizione” del potere pubblico, e nel contempo creare attualmente e concretamente il rischio che si determini un grave danno per il Paese». Non solo: «Il “grave danno” deve essere la conseguenza della specifica qualità e dello specifico finalismo dell’azione considerata». Di qui la richiesta al Riesame di «verificare se, per gli effetti direttamente riferibili al fatto contestato, come tali rappresentati e voluti dagli autori nel contesto in cui calavano la propria azione, si sia creata una apprezzabile possibilità di rinuncia da parte dello Stato alla prosecuzione dell’opera Tav, e di un grave danno che sia effettivamente connesso a tale rinuncia o, comunque, all’azione indebitamente mirata a quel fine».
Tuttavia l’uso di «congegni micidiali» equiparati ad «armi da guerra» come le bottiglie molotov, insieme ad altre considerazioni sulla gravità dell’azione tesa a «mettere in pericolo l’incolumità delle persone», conferma la gravità dell’assalto. Perciò gli indagati rimangono in carcere. Il salto di qualità della protesta No Tav, insomma, resta nella sua pericolosità; è quello fatto dall’accusa quando s’è decisa a contestare le finalità di terrorismo che va riconsiderato.