Guido Olimpio, Corriere della Sera 30/6/2014, 30 giugno 2014
CACCIA GROSSA AI SOTTOMARINI DEI NARCOS
È il rito dei cacciatori. Ogni mattina si ritrovano in una sala senza finestre. Sulle pareti schermi dove sono trasmesse immagini satellitari e video. Sul tavolo i rapporti raccolti nella notte e costantemente aggiornati. Gli ufficiali presentano i loro bersagli. Tracce elettroniche o molto più spesso la segnalazione di un informatore sulla costa colombiana. Indizi sulla possibile partenza di un «narco-sub», un semisommergibile con a bordo diverse tonnellate di cocaina. Ogni cacciatore vorrebbe puntare sulla sua preda. Gli analisti presentano le prove a carico, le incrociano, quando è possibile, con l’intelligence. Un’istruttoria svolta a migliaia di chilometri di distanza. «Le risorse però non bastano — spiega il colonnello Ryan Rideout dei Marines —. Su dieci target possiamo seguirne soltanto due o tre. E allora si discute, anche in modo animato. Quasi volano gli stracci». Da quel meeting escono gli ordini. Su dove mandare un ricognitore. Oppure spostare un pattugliatore per verificare se ci sia un intruso da ghermire.
Siamo all’interno della base che ospita la Joint Interagency Task Force South a Key West, Florida. A pochi metri dalla casa di Ernest Hemingway agiscono militari, Cia, Fbi, Nsa, Dea ed altre agenzie. Al loro fianco i rappresentanti di 17 Paesi. Un team per contrastare il flusso di stupefacenti. Nel 2013 il comando ha registrato 460 «eventi sospetti» in Atlantico e 388 nel Pacifico. Al primo posto i «go-fast», i motoscafi veloci. Poi i finti pescherecci. Quindi i «sottomarini», battelli che procedono sotto il pelo dell’acqua lasciando emergere solo una minuscola torretta.
I narcos li dipingono di verde scuro o di blu intenso per mimetizzarli. Usano fibra di vetro e materiale reperibile sul mercato civile. Di solito sono costruiti in aree al confine tra Colombia ed Ecuador all’interno di «cantieri» — in realtà delle baracche — sui bordi di canali navigabili. Imbarcazioni abbastanza ampie da ospitare quattro uomini e la merce, fino a 12 tonnellate destinate al mercato americano. Gli uomini della Task Force, con l’aiuto di una mappa, mi indicano le rotte. La preferita è quella del Pacifico, che arriva fino alle coste meridionali del Messico. La seconda passa dai Caraibi, con meta Honduras e Nicaragua. La coca è trasbordata a terra e da qui prosegue in direzione Nord. Il battello, costato fino a 2 milioni di dollari, poi viene affondato. Non vale la pena tornare indietro. I guadagni permettono di metterne a punto a decine. Nessun problema per reclutare i banditi. C’è sempre qualcuno disposto a chiudersi nel sarcofago per 1.500 dollari a viaggio. Vita ad alto rischio che non poteva sfuggire all’occhio di Hollywood. In preparazione già due film sul tema.
Dal 1993, quando fu intercettato dai colombiani il primo sub, il «San Andres», ne sono stati bloccati a dozzine. L’ultimo lo hanno sorpreso a maggio. Aveva lasciato il parco naturale di Sanquianga, non lontano dalla costa ecuadoriana. Lungo 13 metri, con a bordo 2 tonnellate e mezzo di roba e tre contrabbandieri. Non è andato troppo lontano. Una nave militare lo ha inseguito con l’assistenza di una fregata Usa. Decisiva, probabilmente, anche l’imbeccata della Task Force. «Se li scoviamo sotto costa — racconta Rideout — è perché una nostra talpa ci ha avvertito». Ed è la situazione migliore. In altre li aiuta il caso.
I narco-sommergibili non li vedi facilmente e gli agenti sperano che abbiano problemi ai motori con il capitano costretto a rompere il silenzio radio per chiedere aiuto. Dialoghi che guidano gli investigatori. A parte un paio di modelli, si tratta di mezzi piuttosto rustici. Qualcuno li ha definiti delle bare galleggianti. All’interno i motori diesel da 300 cavalli sprigionano un calore altissimo, non si respira. E di solito non hanno spazio per il wc, sostituito da un bidone. Il viaggio può durare dai tre ai dieci giorni. Dipende dalle condizioni meteo come dalla velocità, sugli 11 nodi quando va bene. Al posto di guida un timone di una barca, poi radio, Gps e telefono satellitare. Solo in qualche occasione hanno una nave in appoggio. E per mangiare devono bastare le poche scorte consentite.
Come ogni impresa, i cartelli si adattano alle esigenze del mercato dividendosi i compiti. In Colombia c’è chi si è specializzato solo nella costruzione. Personaggi locali che hanno avuto, all’inizio, l’aiuto di un paio di ingegneri navali e successivamente la consulenza di stranieri, ben pagati. È nata così una professione che risponde alle richieste dei fornitori. Molto attiva la banda dei «Los Rastrejos» e il «Fronte 30» dei guerriglieri Farc. I trafficanti hanno anche creato il sottomarino-charter: vendono gli spazi nella stiva e chi vuole può spedire solo una quota. Altri invece incorporano la coca nelle pareti dello scafo. Si inventano barche che, viste da lontano, somigliano a pescherecci. In realtà le sovrastrutture sono finte. Una copertura per ingannare le vedette della Guardia Costiera. Sono flessibili quanto ambiziosi. Nel 2010 in Ecuador hanno sequestrato un modello di classe superiore, dotato di periscopio, cuccette, aria condizionata e sonar. Un vero sottomarino.
Alla Task Force non sono sorpresi. Conoscono il nemico e sanno che in questo momento all’orizzonte, sotto quel mare azzurro, c’è un altro pirata della droga.
Guido Olimpio