Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 29 Domenica calendario

MOLTE cose sono accadute in questi giorni in Europa e in Italia. Ne passerò in rassegna le principali ma ho la sensazione che, al di là dei loro effetti sulla politica e sull’economia che ci riguardano direttamente come cittadini di questo continente e di questo paese, esse abbiano un più profondo significato ed è di questo che voglio ora parlare; ci sono infatti notevoli cambiamenti di un’epoca e di un vissuto collettivo e individuale, dove le scelte che siamo chiamati a decidere hanno motivazioni ben più remote e conseguenze ben più profonde di quelle connesse all’immediatezza che ci sta davanti

MOLTE cose sono accadute in questi giorni in Europa e in Italia. Ne passerò in rassegna le principali ma ho la sensazione che, al di là dei loro effetti sulla politica e sull’economia che ci riguardano direttamente come cittadini di questo continente e di questo paese, esse abbiano un più profondo significato ed è di questo che voglio ora parlare; ci sono infatti notevoli cambiamenti di un’epoca e di un vissuto collettivo e individuale, dove le scelte che siamo chiamati a decidere hanno motivazioni ben più remote e conseguenze ben più profonde di quelle connesse all’immediatezza che ci sta davanti. Per capire meglio quanto avviene ho recuperato i pochi libri di capezzale che spesso consulto per meglio illuminare il mio comportamento. Per esempio gli Essais di Montaigne e lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche; l’uno segna l’inizio dell’epoca che chiamiamo moderna, l’altro ne rappresenta la fine. Montaigne conclude così il terzo libro dei suoi Essais, l’opera che impegnò 27 anni della sua vita e che completò e aggiornò fino al momento della sua morte: «Tanto più sei Dio quanto più ti riconosci uomo. Noi cerchiamo condizioni diverse perché non siamo capaci di fare buon uso della nostra e usciamo fuori di noi perché non sappiamo vedere quel che c’è dentro. Se pure saliamo sui trampoli, dovremo comunque camminare sulle nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo saremo sempre seduti sul nostro culo. A mio giudizio le più belle vite sono quelle che ci conformano al modello comune e umano, senza mirabilia e senza stravaganze». EPOCHE pagine prima di questo finale, aveva scritto: «Nulla nuoce a uno Stato quanto un cambiamento totale che conduce solo all’iniquità e alla tirannia. Quando un pezzo di quell’edificio si stacca lo si può puntellare. Ci si può industriare affinché il naturale alternarsi e corrompersi di tutte le cose non si allontani eccessivamente dai nostri principi. Ma mettersi a riplasmare un così grande edificio equivale a fare come coloro che pensano di correggere dei difetti particolari stravolgendo ogni cosa e di guarire le malattie dando la morte». Infine: «La parola appartiene per metà a chi parla e per metà a chi ascolta. Ci sono due diverse concezioni della parola, come scambio o come duello, ma alla fine è la fiducia ad avere la meglio: un parlare franco apre la via ad un altro parlare e lo tira fuori come fanno il vino e l’amore». Tre secoli dopo di lui, Friedrich Nietzsche chiude la modernità insieme ad altre persone che non si conoscono tra loro ma agiscono nei loro campi perfettamente intonati — senza saperlo — l’uno all’altro. Basterà citare Albert Einstein, Sigmund Freud e poco prima di loro Karl Marx. Di Nietzsche l’imbarazzo è nella scelta che rappresenti al tempo stesso l’essenza del suo pensiero e il suggello finale all’epoca della modernità. Secondo me la summa del suo insegnamento è questa: «Ciascuno di noi si sente al centro del mondo ed è il centro del mondo. Dunque il centro è dappertutto e cioè in nessun luogo. Ecco perché ciascuno vede il mondo e tutti gli individui a suo modo e perché la verità assoluta non esiste. Ciascuno ha la propria ed è questa la fatica del vivere e il suo valore». Concludo questa premessa citando un mio giovane amico che certo non ha la levatura di quelli che ho appena ricordato, ma il cui sentire in qualche modo li riecheggia. Voi lettori lo conoscete, lo criticate o lo apprezzate ma sapete che rappresenta una delle voci interessanti della post-modernità, quelle che io chiamo i contemporanei ed ha dedicato la vita fin qui vissuta alla politica e alla cultura, due attività che purtroppo assai raramente vanno insieme. Parlo di Walter Veltroni che è intervenuto il 24 giugno scorso al Festival delle Letterature tenutosi in Campidoglio. «Pensate al nostro rapporto col tempo. La nostra modernità ha causato molte accelerazioni: quella tecnica, oggi impieghiamo la metà delle ore di trent’anni fa per arrivare da Roma a Milano, scriviamo mail invece di lettere, ci vediamo attraverso il mondo parlando al telefono, accediamo al sapere senza doverci muovere da casa. Ma anche l’accelerazione sociale: spariscono mestieri sostituiti dall’automazione e istituzioni come la famiglia, il lavoro, la scuola sono sottoposte a tensioni inedite. Così cresce freneticamente il ritmo della nostra vita e tutti noi, che pure abbiamo possibilità di risparmio di tempo di ogni generazione vissuta prima di noi, sentiamo che dobbiamo sempre correre. Il nostro tempo storico è l’immediato. Non ci interessa il passato e il futuro ci spaventa. Non siamo disposti ad aspettare, non ci si parla di progetti o di grandi disegni. Ora, qui, subito. Ma il nostro problema è più generale siamo una generazione il cui cervello viene ogni giorno affollato da migliaia di informazioni che ci rendono più consapevoli ma ci sottraggono il tempo necessario per sistemare e razionalizzare. In fondo, per sapere. Stiamo sempre arrivando, ma il rischio è quello di smettere di sapere perché il nostro ippocampo si stanca di tanto cibo e comincia a coltivare una specie di anoressia, come un cassetto troppo pieno che cominci ad espellere fogli, spesso a caso. È dunque vero che ognuno, proprio ognuno, è il centro del mondo. Ad una sola condizione però: sapere che anche il tuo fratello, il tuo vicino, il tuo avversario, sono il centro del mondo. E conoscerli è il solo modo di sapere, viaggiare, arrivare». * * * Veniamo al nostro vissuto di questi ultimi giorni. I leader europei si sono incontrati, scontrati, accordati, rilassati, tra Bruxelles e Ypres dove hanno ricordato una guerra spaventosamente devastante, primo atto d’un terribile gran finale culminato nella distruzione dell’Europa delle nazioni e in un genocidio orribile che nessuno potrà dimenticare. Quelle guerre hanno chiuso un’epoca; in Europa non ci saranno più. Ma l’Europa ci sarà ancora? Questa che vediamo non è che il miraggio d’una generazione che l’aveva sognato, ma non è ancora gli Stati Uniti d’Europa. Sopravvivono i governi nazionali, le istituzioni europee sono deboli e contestate, la nazione egemone che è certamente la Germania è incerta e quasi impaurita dalla sua stessa egemonia; preferisce esercitarla per interposte persone ed istituzioni con tutte le condizioni che ne derivano. Nessuno o pochissimi perseguono veramente la nascita d’uno Stato federale con le relative cessioni di sovranità degli Stati nazionali. Anzi: ciascuno dei governi degli Stati confederati lotta per sé e al suo interno, cerca di avvalersi dell’Europa per rafforzare la propria leadership personale e dei suoi seguaci. Noi italiani abbiamo avuto l’occasione di un leader di notevole capacità che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti. Matteo Renzi e il paese che rappresenta sembrano viaggiare col vento in poppa. Sembrano e in parte è fortunatamente così; in altra parte è un gioco di immagini e di specchi, di annunci ai quali la realtà corrisponde molto parzialmente. La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia la cui fragilità sta sfiorando il culmine senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione. Ascoltando il leader appena tornato dalle esibizioni di Ypres e di Bruxelles sembra che la partita della flessibilità economica sia stata guadagnata. Pienamente guadagnata, dopo aver mostrato i muscoli alla Merkel e avere poi concluso con un sorriso, un abbraccio e solide promesse. Il pareggio del bilancio sarà rinviato al 2016, gli investimenti per la crescita saranno consentiti, la fiducia cambierà in meglio le aspettative, le riforme strutturali — che sono la condizione richiesta dalla Germania — saranno fatte anche perché (Renzi lo dice e lo ridice) il premier ci mette la faccia. Più chiaro, più netto ed anche più irresistibile di così non ce n’è un altro. Un vero fico che la sorte ha regalato all’Italia e — diciamolo — al Partito socialista europeo e all’Europa intera. Però... Però non è proprio così. Intanto per quanto riguarda la flessibilità. Il pareggio del bilancio non è stato rinviato al 2016 ma in realtà al 2015 il che significa che bisognerà porne le condizioni nella legge di stabilità di quell’esercizio, che sarà in votazione dell’autunno di quest’anno. Si intravede una manovra di circa 12 miliardi e forse più. Nel frattempo la domanda, cioè i consumi, sono fermi anzi leggermente peggiorati; la “dazione” degli 80 euro, almeno per ora, non ha dato alcun segnale. È certamente presto per giudicare, aspettiamo i dati di giugno e di luglio; ma per ora non ci sono segnali di ripresa. Semmai ci sono segnali di ulteriore aumento della disoccupazione, giovanile e non. Il vero e solo dato positivo viene dall’intervento della Banca centrale europea che nelle prossime settimane dovrebbe intervenire con misure “non convenzionali”. Ma qui non c’entrano né il governo italiano né le istituzioni europee e neppure la Germania. Qui c’entra la Bce e la fermezza di Draghi, sperando che la lotta per alzare l’inflazione abbia successo. * * * Draghi richiama un altro tema assai scottante che però non riguarda il presidente della Banca centrale il cui nome nel caso in questione è stato usato a sua insaputa (e molto probabilmente col suo personale fastidio). È circolata nei giorni scorsi la notizia che uno dei possibili anzi probabili candidati a sostituire Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo sarebbe stato Enrico Letta. La notizia è uscita sul Financial Times e su molti giornali italiani e la candidatura avrebbe avuto il pregio di non provenire dal governo italiano ma da quello inglese e anche francese. Pregio, perché i candidati alle massime cariche dell’Unione non sono scelti sulla base della nazionalità d’origine, ma sulla base del talento e dell’esperienza. Lo stesso Giorgio Napolitano ha ricordato pubblicamente che, dal momento della nomina a presidente della Bce, Draghi non è più considerato come un italiano, così come Jean-Claude Juncker non è considerato un lussemburghese, sicché un altro italiano scelto per un’altra carica non incontra alcuna difficoltà per la presenza d’un suo “originario concittadino”. Questo non è un dettaglio di poco conto ma un punto fondamentale per chi persegue gli obiettivi dell’Europa federale e non confederata. Ma il nostro Renzi (e guai a chi ce lo tocca) ha di fatto risposto: Letta chi? E poi ha aggiunto che la presenza di Draghi costituiva un ostacolo all’eventuale incarico di Letta. Comunque — ha infine aggiunto il nostro presidente del Consiglio — lui non pensava affatto ad ottenere quella carica per un italiano ma piuttosto ad avere la ministra degli Esteri, Mogherini, alla carica di Alto rappresentante della politica estera e della difesa europea. Abbiamo già scritto domenica scorsa, e qui lo ripetiamo per chi ha orecchie da mercante, che quella carica non conta assolutamente nulla. Politica estera e difesa sono solidamente nelle mani dei governi nazionali, nessuna cessione di sovranità è prevista in proposito, ogni paese europeo ha la sua politica estera che spesso non coincide con quella degli altri. Si tratta dunque d’un obiettivo di pura facciata, che proprio per questo l’Italia ha già ottenuto e utilizzerà a favore della Mogherini o di D’Alema. * * * Concludo ricordando che la flessibilità concessa all’Italia nei limiti che abbiamo già visto è comunque subordinata a riforme strutturali che incidano sull’economia. Altre riforme interessano assai poco l’Europa e gli stessi italiani. Quelle della legge elettorale nonché la riforma del Senato sono tra le meno interessanti ai fini della flessibilità. Di esse abbiamo più volte parlato nelle scorse settimane. Far sparire il Senato depaupera il potere legislativo. Il sistema monocamerale avvia inevitabilmente verso un cancellierato e quindi un rafforzamento del potere esecutivo. Si può fare e forse sarebbe anche utile, purché venga riscritta l’architettura dei contropoteri di controllo. Prima e non dopo. Questo punto è essenziale per la democrazia e non può essere preso di sbieco: va affrontato di petto e — ricordiamolo — da un Parlamento i cui membri, specie in questioni di questa natura, sono liberi da ogni vincolo di mandato e debbono esprimersi a viso aperto, visto che agiscono come rappresentanti del popolo sovrano.