Guido Santevecchi, Corrier della Sera 29/6/2014, 29 giugno 2014
Secondo i più pessimisti tra non molto il nuovo confine dell’Europa sarà segnato dai 2.290 chilometri del fiume Dnipro, la porta dell’Est Ucraina
Secondo i più pessimisti tra non molto il nuovo confine dell’Europa sarà segnato dai 2.290 chilometri del fiume Dnipro, la porta dell’Est Ucraina. Un’altra corrente di pensiero, forse maggioritaria, guarda con fiducia la foto del 27 giugno che ritrae a Bruxelles il neo presidente dell’Ucraina, Petro Poroshenko, festeggiato come un campione olimpico da José Manuel Durão Barroso e da Herman Van Rompuy, numeri uno della Commissione e del Consiglio europeo. Hanno appena firmato l’accordo di associazione tra Ue, Ucraina, Moldavia e Georgia. L’appoggio dell’Unione Europea, sostengono gli ottimisti, garantirà l’integrità del Paese, al netto del taglio ormai irreversibile della Crimea. All’immagine di Bruxelles, però, bisognerebbe affiancare quella del 29 maggio scorso, il giorno in cui è nata ufficialmente l’unione doganale tra Russia, Kazakistan e Bielorussia, con Armenia e Kirghizistan che dovrebbero aderire nei prossimi mesi. Nei piani del presidente russo Vladimir Putin a quell’appuntamento si sarebbe dovuta presentare anche l’Ucraina. In ogni caso gli avvenimenti dell’ultimo mese spediscono in archivio l’ambizione (o l’illusione) coltivata dall’Unione Europea (e in parallelo dalla Nato) di poter estendere la propria sfera di influenza fino alla Russia. Un disegno nato agli inizi del Duemila con la messa a punto teorica e pratica della dottrina dell’allargamento ineluttabile verso Est. Il progetto della Super Europa metteva d’accordo i disegni egemonici della nuova Germania e gli interessi economici della Gran Bretagna. Due spinte che ben si sposavano con le aspirazioni degli Stati appena fuoriusciti dall’orbita dell’Unione Sovietica. La strategia del «ritorno nella Casa europea» raggiunge il suo culmine nel 2004 con l’ingresso nel Club Ue del blocco dell’Europa orientale, dalla Polonia alla Lituania. Da quel momento le istituzioni di Bruxelles, ispirate dall’asse Parigi-Berlino e, per l’occasione appoggiate anche da Londra, si sono sentite autorizzate dalla Storia, se così si può dire, a rivoluzionare gli equilibri e i confini sostanziali del Vecchio Continente, ereditati dalla Seconda guerra mondiale. L’idea, implicita, era di passare dallo schema bipolare Occidente-Oriente a uno monopolare: al centro Bruxelles (ma si deve intendere Berlino-Parigi-Londra) e poi via via una serie di anelli, fino ad arrivare a Mosca. «Ring of friends», come diceva Romano Prodi, quando era presidente della Commissione europea (1999-2004). L’anno della frattura è il 2005. Il «no» degli elettori francesi e olandesi al referendum sulla Costituzione europea segna anche la fine della politica missionaria di allargamento. O meglio, da quel momento in avanti si abbandonerà il sogno di cambiare la cartina politica dell’Europa e si procederà solo a «svuotare i cassetti», accettando ingressi già pianificati (la Croazia nel 2013). Un esito soddisfacente anche per Vladimir Putin, che in quegli anni plasmava il suo regno con la formula tipica dei regimi autoritari illuminati (anche se può sembrare un ossimoro): innovazione nella finanza, apertura nell’economia per attirare capitali stranieri; restaurazione nella società ripescando i valori della tradizione russa più profonda. Da allora il modello unipolare ed eurocentrico sfuma lentamente e ricompaiono più o meno i confini precedenti alla sovietizzazione dell’Est. Le antiche tensioni, però, lasciano spazio all’integrazione economica sempre più stretta tra Ue e Mosca: i gasdotti, l’import-export, gli investimenti immobiliari. Tutto bene fino a quando non si presenta l’occasione per portare alla luce la contraddizione latente, cresciuta all’interno dell’Unione Europea, dopo il fatale 2005. La Polonia, in particolare, non ha mai rinunciato all’idea che, prima o poi, anche i confratelli dell’Ucraina sarebbero stati accolti nella «Casa europea». Ma nessun altro Paese in Europa, a cominciare dalla Germania di Angela Merkel, ha mai considerato realistica la prospettiva di spezzare il nuovo equilibrio dei confini, integrando un Paese vasto come la Francia. Da questo equivoco è nata la rivolta di Kiev nel novembre del 2013. Il movimento di Maidan ha creduto che l’accordo di associazione costituisse davvero la premessa di un futuro da partner ufficiali nell’Unione Europea, mentre, invece, è solo una questione di commerci, di standard industriali. Oggi, però, sette mesi e cinquecento morti dopo (mettendo insieme le vittime della capitale e quelle nell’Est Ucraina) sono saltati tutti i criteri codificati a Bruxelles. Non era questo naturalmente l’approdo che i negoziatori europei immaginavano nel 2008, quando si cominciò a discutere di «associazione» tra Kiev e Bruxelles. Di sicuro l’Europa è già tornata al vecchio modello bipolare. Mosca ha messo in campo tutti gli strumenti, diplomatici, economici (vedi Gazprom e la querelle sulle forniture di gas), militari per sganciare più Paesi, regioni, territori possibili dal «ring of friends» europeo. Dovunque saranno tracciati, i nuovi confini saranno quelli di un’Europa tornata al pre 1989. Occidente (sia pure più largo) da una parte, Russia (più piccola) dall’altra. gsarcina@corriere.it © RIPRODUZIONE RISERVATA Disegnatori e cartografi cinesi sono stati molto occupati di recente. L’ultima produzione è una mappa verticale della Repubblica popolare: sostituisce quella tradizionale, che si estendeva in orizzontale per rappresentare il Paese da Occidente a Oriente. Lunedì scorso, con una conferenza pubblica, è stata svelata la nuova versione che comprende il mare a Sud. Si tratta di un maquillage geo-politico, perché per decenni quell’area era stata relegata in un inserto quadrato al piede della carta, in proporzioni ridotte rispetto al continente. «La nuova mappa verticale mostra tutta l’estensione del territorio della Cina», ha scritto il Global Times , quotidiano in lingua inglese del governo di Pechino. Nel Mar Cinese Meridionale, che si estende per circa 3,5 milioni di chilometri quadrati, ci sono circa duecento isole, isolotti, scogliere che sommati insieme coprono solo pochi chilometri quadrati, spesso poco al di sopra del livello dell’oceano anche quando c’è bassa marea. Sono disabitati, ma la loro sovranità, contesa tra diverse nazioni, regola il diritto di navigazione (un terzo del traffico mercantile solca quelle rotte), di pesca, garantisce la pretesa di sfruttamento di grandi giacimenti di petrolio e gas che si presume siano sotto il fondale. La mappa verticale prodotta dalla Cina contiene nove tratti che uniti chiudono la maggior parte del mare e delle isole, il 90 per cento circa del totale. Però, su quell’enorme zona si affacciano altri Paesi con analoghe rivendicazioni: Brunei, Malaysia, Filippine, Taiwan e Vietnam. La cosiddetta «linea dei nove tratti» è stata disegnata dai cartografi della Repubblica popolare cinese per la prima volta nel 1953, ereditata da una mappa interna del Kuomintang (il governo nazionalista di Chiang Kai-shek) risalente al 1947. Né i nazionalisti né i comunisti hanno mai chiarito il significato di quei tratti sul blu del mare e per anni la linea che componevano è stata ignorata. Fino a quando, nel 1968, l’Onu pubblicò uno studio secondo il quale i fondali potevano contenere importanti giacimenti di idrocarburi. Da allora sono cominciate le rivendicazioni, sostenute con diversi espedienti: Manila, per esempio, usa la «Sierra Madre», una vecchia nave arrugginita arenata tra gli scogli delle isole Spratly, come base permanente per un suo distaccamento di marines che i cinesi spesso circondano per rendere difficili i rifornimenti. Nel 1974, mentre gli americani preparavano il ritiro da Saigon, cinesi e sudvietnamiti combatterono una battaglia navale tra le isole Paracel. Nel 2012 il ministero degli Esteri di Pechino ha inserito una pagina sui passaporti dei cinesi con un’immagine dei «nove tratti» sul mare: ci furono proteste diplomatiche. Il primo maggio i cinesi hanno ancorato una grande piattaforma petrolifera tra le isole Paracel, 240 chilometri al largo delle coste del Vietnam. Ne è nato un confronto navale, con unità della guardia costiera e pescherecci di Hanoi impegnati a ostacolare la manovra e i cinesi che hanno risposto con cannoni ad acqua e speronamenti. In Vietnam la contesa territoriale ha acceso il fuoco nazionalista contro le fabbriche cinesi presenti sul suo territorio: centinaia sono state assaltate, si sono contati venti morti e centinaia di feriti a maggio. Pechino, oltre ai cartografi, ha messo al lavoro anche gli ingegneri del genio militare, che stanno progettando un’isola artificiale tra le Spratly, composta ancorando grandi cassoni tra gli scogli e riempiendoli di sabbia. L’obiettivo è creare un avamposto dotato di pista aerea e porto: secondo il progetto l’installazione sarà grande due volte Guam, la base americana di 44 chilometri quadrati nell’Oceano Indiano. Il punto dove sorgerà l’isola artificiale è Fiery Cross Reef, conteso anche da Vietnam e Filippine. Ad aprile Manila aveva denunciato un altro piano cinese a Johnson South Reef, dove c’è già un’installazione radar cinese e i militari stanno riempiendo di sabbia una zona di scogli. Ora le fonti di Pechino dicono che quella di Johnson è una prova di fattibilità, per vedere se il progetto può essere replicato su larga scala a Fiery. «Non c’è bisogno di sforzarsi in interpretazioni sulla mappa verticale», ha detto un portavoce di Pechino: «Serve a dare ai lettori un’impressione dei territori nazionali cinesi». @guidosant