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 2014  giugno 29 Domenica calendario

ROMA — I

conti si fanno sempre in fondo. E da qui alla fine manca ancora un sacco di tempo. Vent’anni almeno. Intanto però paghiamo. E caro, come ha ricordato giovedì 26 giugno Salvatore Nottola durante la sua requisitoria sul rendiconto dello Stato. Nel solo 2013 le operazioni di swap sui derivati, parole sue, «hanno inciso sul deficit per 3,2 miliardi di euro»: senza quel salasso, ha spiegato il procuratore generale della Corte dei conti, il rapporto fra deficit e Prodotto interno lordo sarebbe stato del 2,8 per cento. Due decimi di punto inferiore al fatidico 3 per cento che abbiamo centrato con fatica, e scusate se è poco in un contesto nel quale Bruxelles ci chiama al rispetto rigoroso delle regole. Senza contare che quei 3,2 miliardi finiti nelle tasche delle banche rappresentano una cifra pari ai tre quarti del gettito Imu sulla prima casa, che il governo di Enrico Letta si era dannato l’anima per trovare dovendo tener fede a certe avventurose promesse elettorali.
La cosa ha origini lontane. A partire dalla prima metà dello scorso decennio il governo italiano decise di stipulare una serie di contratti con banche italiane e internazionali per coprire parte del debito pubblico (circa 160 miliardi) dal rischio di aumento dei tassi. Il Tesoro rammenta che in quegli anni l’euribor, valore che viene preso a riferimento, oscillava fra il 4 e il 5 per cento e fino a quel momento si erano verificati esclusivamente choc al rialzo. Verissimo. Anche se fra il 2000 e il 2002 l’euribor era calato dal 5 al 2 per cento. E sarebbe senza dubbio interessante conoscere le previsioni sull’andamento dei mercati e le valutazioni di carattere generale che spinsero a prendere quell’iniziativa.
Il meccanismo di questo genere di derivati è piuttosto semplice. Il Tesoro paga alle banche un tasso fisso, diciamo il 4 per cento. Ricevendo a sua volta in pagamento dalle banche un tasso variabile, calcolato appunto sull’euribor. Se questo è più alto di quel fatidico 4 per cento, lo Stato italiano ci guadagna la differenza; se è più basso ci perde la differenza. E siccome dal 2008, con l’esplosione della crisi finanziaria mondiale i tassi sono letteralmente crollati, ecco spiegato il salasso. Visto che dal 2009 a oggi l’euribor non ha mai raggiunto il 2 per cento e negli ultimi due ha oscillato al di sotto dello 0,50, si può calcolare che l’operazione derivati ci sia costato da allora almeno una decina di miliardi. Con il fattivo contributo dei tanti enti locali contagiati anch’essi dalla micidiale febbre dei derivati: ben 250 milioni di perdite di quei 3,2 miliardi accumulati nel solo 2013 sono attribuibili a loro.
Si sarebbe potuto evitare? Gli esperti del Tesoro spiegano che i derivati equivalgono a una polizza assicurativa, anche se il premio è fortemente variabile. In questo caso, ben oltre le aspettative più nere: la tesi è che nessuno poteva prevedere la drammatica crisi finanziaria, né una simile caduta dei tassi. Tecnicamente, però, si tratta pur sempre di una scommessa, basata su previsioni di lungo periodo: è assai difficile che le banche accettino di scommettere se il rischio di perdita è troppo alto. E finora, va detto, hanno avuto ragione loro.
La durata di quei contratti di swap, trentennale, è poi al tempo stesso per lo Stato una garanzia e un’arma a doppio taglio. Una garanzia, nel caso (improbabile almeno per i prossimi due ani) in cui i tassi dovessero decollare all’improvviso; un’arma a doppio taglio se l’euribor dovesse continuare a galleggiare su livelli prossimi allo zero. Si potrebbero forse rinegoziare gli accordi con le banche, ma questo avrebbe certamente un prezzo molto alto. All’inizio del 2012 il governo di Mario Monti, in carica da poche settimane, decise di risolvere anticipatamente un contratto di finanza derivata con la Morgan Stanley, versando in unica soluzione nelle casse della banca americana la somma di 2 miliardi 567 milioni di euro.
Per ora dunque le banche (tra cui due sole italiane, Unicredit e Intesa San Paolo) festeggiano. Mentre allo Stato italiano non resta che leccarsi le ferite, sperando paradossalmente che i tassi si rialzino quanto prima: anche se questo farebbe risalire insieme i rendimenti dei titoli pubblici e il costo del servizio del debito. Perché i conti, dicevamo, si fanno sempre in fondo. E fra vent’anni chi vivrà vedrà.