Elisabetta Ambrosi, Il Fatto Quotidiano 28/6/2014, 28 giugno 2014
RAGAZZA SUICIDA: COLPA DEI GENITORI O DI CHI LASCIA SOLE LE FAMIGLIE?
Sono arrivati alla celebrazione nascosti tra la gente, per paura di fotografi e telecamere, forse terrorizzati dalla possibilità di poter essere aggrediti. Forse pieni, oltre che di dolore, di vergogna e paura. Eppure non erano omicidi involontari, magari di una ragazza morta in un incidente stradale da loro provocato, ma i genitori della ragazza suicida ricordata durante la messa di ieri nella chiesa di San Filippo Neri, a Forlì. Sicuramente vittime, dunque, e al tempo stesso, però, possibili colpevoli, visto che la madre e il padre di Rosita Raffoni, la studentessa che il 17 giugno si è gettata dal terrazzo del liceo Morgagni, sono indagati per il reato di maltrattamento in famiglia con l’aggravante dell’istigazione al suicidio e della morte della persona offesa, probabilmente in seguito alle parole della ragazza stessa (“mi hanno reso la vita impossibile, spero ci sia giustizia per questa mia morte, spero che i carabinieri facciano un’indagine”), pronunciate nel lungo video girato con il suo telefonino prima di uccidersi.
Più che la decisione dei magistrati – che ora avranno il duro compito di accertare se davvero quel suicidio è stato la conseguenza prevedibile di quei presunti maltrattamenti o la scelta in qualche modo libera di un individuo capace di autodeterminarsi – a inquietare sono le suggestioni, subito rimbalzate dai media, evocate dal legame tra suicidio e colpa dei genitori. In particolare l’idea assurda e meccanica di un collegamento lineare tra una famiglia inadeguata e il suicidio di un’adolescente, ma anche tra il divieto di avere un Iphone, o di iscriversi a Facebook o di fare un soggiorno studio in Cina, e il togliersi la vita, con la diffusione di ulteriore panico collettivo, specie tra genitori sempre più fragili e sotto ricatto.
Più che la ricerca di capri espiatori, una volta che il fatto tragico è compiuto e nulla si può più fare, sarebbe meglio chiedersi come si faccia ormai, oggi che abbiamo modelli della mente avanzati che parlano di cause “bio-psico-sociali”, a considerare solo le ragioni familiari di una sofferenza psichica estrema, dimenticando che la famiglia non è un universo chiuso, ma un microcosmo permeabile all’interno di altri microcosmi, la scuola, la società, persino la politica. Da questo punto di vista, se sono colpevoli i genitori, perché allora non anche tutti gli altri che non hanno colto i segnali del disagio, ad esempio gli insegnanti , o chiunque fosse entrato in contatto con la ragazza, il medico di famiglia, ma anche, tornando indietro, il pediatra o l’asilo? Ma se anche considerassimo la famiglia come principale colpevole, potremmo lo stesso domandarci: chi ha ridotto le famiglie così? Chi le aiuta, chi le sostiene? Dove sono gli assistenti sociali, dove sta la prevenzione in ambito di salute mentale in un paese che di salute mentale non parla più? Se vogliamo cercare le colpe, allora sarebbe bene cercarle ovunque, a partire – perché no – da noi giornalisti che invece di spezzare il contagio emotivo spesso lo alimentiamo.
Forse, invece di rovistare su una tragedia privata, alla ricerca della spiegazione semplificata di un male complesso, sarebbe meglio cominciare a riflettere sul perché la capacità di reggere di fronte a difficoltà e frustrazioni, di adottare pratiche di resilienza, magari creative – quello che gli analisti chiamano “io” – non tenga più, negli adolescenti come negli adulti. E sul perché siamo diventati una società fondata sulla paura, invece che sull’autocritica e soprattutto sulla ragione.
Elisabetta Ambrosi, Il Fatto Quotidiano 28/6/2014