Ste. Fel., Il Fatto Quotidiano 28/6/2014, 28 giugno 2014
DALLE ISTITUZIONI AL 3%, COSÌ FUNZIONA L’UNIONE
Con l’indicazione di Jean Claude Juncker per la Presidenza della Commissione europea inizia il nuovo corso dell’Europa post-elezioni. Ecco le parole chiave per capire cosa succederà.
PRESIDENTE COMMISSIONE Con il trattato di Lisbona, il Consiglio (capi di Stato e di governo) indica il presidente dell’esecutivo comunitario “tenuto conto del risultato delle elezioni”. In questo caso Juncker, il candidato del Partito popolare europeo che è quello che ha preso più seggi, 221 su 751. Ora Juncker deve ottenere un primo voto di fiducia dal Parlamento sul suo programma e poi per ogni commissario e sulla squadra nel complesso. Durante la crisi la Commissione ha perso molta autonomia e si limita ad attuare le indicazioni politiche del Consiglio. La posizione di commissario più rilevante è quella agli Affari economici, finora detenuta dal finlandese Olli Rehn.
PRESIDENTE CONSIGLIO Oggi è il belga Herman Van Rompuy, anche lui da sostituire. Convoca e presiede il Consiglio europeo, cioè il coordinamento dei governi dell’Unione, il suo compito principale è agire da mediatore nelle riunioni chiuse tra i primi ministri e capi di Stato. Nel Consiglio si decide quasi tutto all’unanimità, nel concreto è la Germania che comanda, il successore di Van Rompuy dovrà far traghettare l’Europa in una fase in cui l’egemonia tedesca è intatta ma l’austerità non è più un dogma condiviso da tutti. La favorita per la poltrona era la socialista danese Helle Thorning-Schmitt, che però si è chiamata fuori.
EUROGRUPPO È il coordinamento dei Paesi dell’euro che dal 2008 ha un presidente permanente che in futuro dovrebbe avere ancora maggiori poteri. Fino al 2012 il presidente dell’Eurogruppo era Juncker, poi sostituito dall’olandese Jeroen Dijesselbloem. È una specie di ministro dell’Economia europeo, con pochi poteri formali ma è l’interlocutore principale per la Banca centrale europea. Matteo Renzi vorrebbe un italiano su quella poltrona, anche il suo ministro Pier Carlo Padoan, ma c’è già un italiano, Mario Draghi, alla Bce.
FLESSIBILITÀ È la moda del momento: i trattati che hanno costruito il rigore contabile, da quello di Maastricht del 1992 al Fiscal Compact del 2012, non si riformano (serve l’assenso di tutti e 28 i Paesi), ma c’è una certa condivisione a interpretarli nel modo meno rigido possibile. Purché non si violino i principi fondamentali – deficit nominale sotto il 3 per cento del Pil, debito tendente alla riduzione, contenimento della spesa pubblica – gli Stati che ne hanno bisogno possono sopportare il costo di alcune riforme profonde necessarie a far ripartire la crescita senza che il costo di queste venga conteggiato nei parametri di bilancio. Questa la linea, ma è ancora da decidere come sarà declinata.
3 PER CENTO È l’unica parte dei vincoli di Maastricht che è stata, spesso, rispettata. Il deficit nominale di un Paese non può superare il 3 per cento del Pil o scatta la procedura di infrazione che priva il Paese che ne è vittima dell’accesso ad alcuni fondi comunitari, lo costringe a dover negoziare molte misure con Bruxelles e può comportare sanzioni. Anche la Commissione è consapevole che non è il parametro migliore, ma per ora non si tocca. Da alcuni anni, però, le autorità europee concentrano l’attenzione non sul deficit nominale ma sul deficit strutturale, che non considera alcune conseguenze della recessione (crolla il Pil, sale la spesa per ammortizzatori sociali ecc) e che dovrebbe quindi essere una misura più affidabile della serietà di un Paese. L’Italia avrebbe dovuto avere un deficit strutturale pari a zero nel 2015, ma ha deciso di rinviare il pareggio di bilancio al 2016.
Ste. Fel., Il Fatto Quotidiano 28/6/2014