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 2014  giugno 28 Sabato calendario

LA RIVINCITA DI JUNCKER L’UOMO DEL PASSATO PIÙ FORTE DI VETI E SCANDALI


Herman Van Rompuy ha aperto il dibattito mentre in tavola veniva servito un gazpacho di pomodoro, e David Cameron, come atteso, ha preso la parola per dire che non ci stava e che, dunque, bisognava votare. Il fiammingo che comanda al Consiglio Ue ha guardato i colleghi leader con la gelida espressione che sa tirar fuori in queste circostanze. «Siete voi favorevoli a proporre Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione alla luce degli articoli eccetera eccetera?». Gli hanno risposto ventisei mani levate, approvazione più che netta. Ma occorreva la verifica. «Siete voi contrari...» e solo due mani alzate, una britannica e l’altra ungherese, troppo poco per fermare la corsa del lussemburghese verso Palazzo Berlaymont. Dove, a dir la verità, non tutti lo volevano e pochi pensavano sarebbe arrivato.
Adesso che c’è - e sempre ammesso come pare scontato che raccolga almeno 376 voti all’Europarlamento il 16 luglio -, si potrà discutere se davvero l’uomo del Granducato, casacca popolare, anima europeista, premier per 19 anni, guida dell’Eurogruppo durante i tempi peggiori della crisi, sia il profilo giusto per imporre il necessario cambio di marcia a un’Ue che cresce poco e ha troppi cittadini senza lavoro. Matteo Renzi racconta di «essere l’unico al vertice che non conosce Juncker» e, visto che lui è per definizione «nuovo», l’argomentazione vien da sola. «L’ho votato a nome dell’Italia perché c’era il documento strategico a cui deve attenersi», ha aggiunto. L’entusiasmo, è altra cosa.
C’è novità nel fatto che Van Rompuy ha dato l’annuncio via Twitter alle 16,29, lo stesso mezzo che Juncker ha usato per dirsi «onorato» e «pronto a lavorare con gli eurodeputati, messaggi apparsi a fianco del suo slogan presidenziale, «Esperienza, Solidarietà, Futuro». Il lussemburghese è il primo candidato alla Commissione dotato di una sorta di battesimo democratico. Era abbinato alla campagna elettorale dei partiti della famiglia popolare, da noi Forza Italia e Ncd. Il Ppe ha vinto in Europa e, intorno al suo nome, s’è coagulata la necessaria maggioranza. I socialisti lo voteranno in cambio della rielezione di Schulz sul trono a Strasburgo. Affare fatto.
Juncker sarà così il primo presidente ad arrivare a Palazzo Berlaymont privo di consenso unanime. Ha quasi 60 anni come la Merkel ma li porta peggio. È un grande fumatore, un amante della buona tavola e del buon vino, cosa che ha dato vita a una folta serie di pettegolezzi, anche di bassa lega, sulla sua natura di bevitore. I tabloid britannici ci sono andati a nozze. Lui ha risposto con ironia, col suo senso dell’ironia a volte irritante. «Sono pronto a essere insultato per il mio operato politico, ma bisogna essere seri», ha detto stizzito. È un pezzo di storia non sempre trasparente. È attaccabile. Lo accuseranno per avere difeso con troppa veemenza la natura di paradiso in terra del Granducato dove la gente paga da sempre poche tasse. Lo scorso anno ha perso la guida del governo per uno scandalo di un presunto spionaggio di cui non poteva non sapere. Ha smarrito il potere e sembrava la fine per uno che era già ministro a 29 anni. Le accuse non hanno avuto seguito, così in marzo i leader del partito popolare europeo lo hanno votato candidato per la Commissione. Forse senza convinzione ma lo hanno fatto, avviando un processo che non hanno saputo fermare.
Ama il rigore e lo ha difeso con forza. Ha negato anche in campagna elettorale di essere favorevole a più flessibilità nelle politiche di bilancio, e questo lo renderà un cliente difficile per l’Italia. Ha una propensione al sociale evidente, è il più a sinistra dei democristiani europei. Adora l’Europa, per vocazione e forse anche perché il padre fu costretto dai tedeschi a combattere per Hitler in Crimea, dove fu ferito. Da sempre sostiene l’esigenza di un salario minimo per chi lavora. È schietto. Spesso troppo. Non è piaciuto quando ha detto che «per il bene della politica può essere necessario mentire». Giornali e analisti hanno trovato la fase indigesta. Lo hanno chiamato «il Maestro delle menzogne». In realtà, per quanto spiacevole fosse, aveva detto tutto meno che una bugia.

Marco Zatterin, La Stampa 28/6/2014