Mario Deaglio, La Stampa 28/6/2014, 28 giugno 2014
L’EUROPA HA SVOLTATO ORA STA A NOI
Nei confronti dell’Unione europea l’Italia è afflitta dallo stesso complesso che l’affligge nel calcio, quello di credersi eccezionale sempre e comunque, nel bene o nel male. L’allenatore e i giocatori della nazionale vengono tutti osannati perché ritenuti dei campioni, oppure scherniti perché li si considera tutti brocchi. Non c’è via di mezzo, non si riesce a pensare che la squadra azzurra sia un po’ come tutte le altre, con alti e bassi, debolezze e punti di forza. Allo stesso modo, il presidente del Consiglio e i ministri che vanno a Bruxelles vengono spesso percepiti come quelli che le cantano chiare alla Merkel, la quale accetta il punto di vista italiano e ci lascia sforare sui limiti di spesa, oppure come i lacchè della Merkel che prendono ordini da Berlino. L’opinione pubblica fa una certa difficoltà a considerare che l’Europa si costruisce giorno per giorno, meglio se senza grandi vincitori e senza grandi vinti, meglio se senza alzare la voce e senza drammatizzare un cammino lungo e difficile.
Nella giornata di ieri, le questioni italiane, pur molto importanti e meritevoli di analisi, sono passate al terzo posto dietro due avvenimenti del tutto straordinari: con la designazione – mediante la procedura insolita del voto a maggioranza – del lussemburghese Jean-Claude Juncker a presidente della Commissione europea, 26 paesi dell’Unione hanno deciso di dare uno schiaffo sonoro al Regno Unito del primo ministro Cameron, unico, insieme con il primo ministro ungherese, a votare contro Juncker.
Con una prova di forza assai rara per un consesso di paesi sempre inclini al compromesso, l’Unione non ha ceduto alle minacce, un po’ maldestre, di Cameron che da tempo fa balenare la possibilità di un referendum che sancisca l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. E forse sia l’Europa sia la Gran Bretagna starebbero meglio se Londra fosse legata all’Unione da semplici accordi commerciali, dal momento che non vuole rinunciare alla sua posizione di ombelico finanziario del mondo globalizzato sulla quale ha costruito la sua economia post-industriale, per sottostare alle più severe norme europee sui movimenti dei capitali.
Non contenti di aver sfidato la Gran Bretagna, nello stesso giorno i ministri europei hanno sfidato anche la Russia, firmando con l’Ucraina (e anche con la Georgia e la Moldova) un trattato di associazione che fa entrare questi tre paesi in una sorta di «area commerciale europea», sottraendoli in parte a rapporti stretti e privilegiati con Mosca. E contro la Russia hanno addirittura usato toni da ultimatum, minacciando sanzioni qualora non si vada verso negoziati di pace tra ucraini filorussi e ucraini filoeuropei. E’ ben possibile che dietro queste parole altisonanti ci siano in realtà trattative discrete per sbloccare la crisi ucraina, ma era ormai molto tempo che da Bruxelles non arrivano prese di posizione di alto profilo.
L’Europa che emerge dalla riunione del Consiglio del 27 giugno è, in altre parole, un’Europa diversa che si prepara a vivere in un pianeta sicuramente diverso, come mostrano gli avvenimenti di Siria ed Iraq, un’Europa che recupera la dimensione politica e cerca di affrancarsi dal predominio della burocrazia europea. Ed è in questo contesto di svolta, di rottura con un passato anche recente che si collocano le problematiche italiane. Per tornare a metafore calcistiche, la delegazione italiana non ha né vinto né perso, ha ottenuto un dignitoso pareggio, proprio quello che è mancato alla nazionale; questo dignitoso pareggio consente all’Italia di passare il turno, ossia di prepararsi a una serie di confronti, a un irrobustimento della debole crescita attuale nel quadro di un’Unione europea in via di rinnovamento.
La nuova dimensione politica implica che lo sforzo stesso di produrre riforme abbia il suo peso nella valutazione finanziaria di un paese. Il famoso (famigerato?) limite del 3 per cento resta ma gli elementi che servono a determinarlo potranno cambiare: la valutazione sarà diversa se al tre per cento si arriva per non essere riusciti a contenere la spesa pubblica corrente o se ci si arriva per aver messo in moto una vigorosa campagna di investimenti pubblici, in assoluta trasparenza e in coerenza con obiettivi di crescita. La presenza o no di un disegno coerente di crescita, e di una sua trasparente attuazione, potrà fare la differenza nell’esame della situazione dei conti, non ci saranno quasi certamente degli «sforamenti» ma piuttosto degli «slittamenti» di termini se è dimostrabile che il paese ha messo in moto un processo di riforme. Che naturalmente sono quelle che l’attuale governo ha avviato e che si appresta a realizzare, alcune fin da subito, altre nei mille giorni che il presidente del Consiglio ha espressamente richiesto.
La palla torna quindi all’assemblea di Montecitorio (e, ancora per poco, se le cose vanno come il governo auspica, anche a quelle di Palazzo Madama). E come osservatore di ciò che succederà in quell’assemblea ci sarà anche l’Europa. Che non sarà molto tenera verso intoppi derivanti da guerriglie parlamentari che risulterebbero incomprensibili ai nostri partner al di là delle Alpi. Ci si aspetta, in sostanza un esame dei testi delle riforme al tempo stesso più tecnico e più rapido e da questo dipenderà anche quanti e quali fondi europei saranno a disposizione per gli investimenti del paese. In un’Europa che ha «svoltato» il Parlamento italiano ha molte responsabilità in più.
mario.deaglio@unito.it
Mario Deaglio, La Stampa 28/6/2014