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 2014  giugno 28 Sabato calendario

“YES WE CAN” GLI USA DI OBAMA FINITI NEL PALLONE


WASHINGTON
La “diffidente danza” fra gli Stati Uniti e il gioco del calcio, come l’ha definita il New Yorker, conosce, da giovedì, qualcosa che somiglia finalmente a un tango sensuale. Obama, padre di due ragazze che lo giocano nel liceo, si fa riprendere sull’Air Force One mentre segue i “boys” contro i tedeschi a 11 mila metri di quota in volo verso il Minnesota.
E i sismografi dei rilevamenti televisivi segnalano terremoti mai visti: quasi 30 milioni di spettatori fra le reti che l’hanno trasmessa, le visioni in Rete su tablet e smartphone e migliaia nelle piazze davanti ai maxischermi. «One nation, one team», proclama la federazione, una nazione che si fa squadra, una squadra che si fa nazione, almeno per qualche ora.
Se ancora non è amore, e certamente non matrimonio, fino a martedì quando i giovanotti del “soccer” si scontreranno contro i micidiali belgi, queste giornate del Mondiale 2016 raccontano di un’altra tappa palpitante nel lungo viaggio fra i nord americani e “the beatiful game”, quello sport che aveva negli Usa l’ultima roccaforte frigida e imprendibile. Persino l’America produttivista, aziendalista, ultracompetitiva ha sorriso benevola e ha annuito quando Klinsmann, il Commissario Tecnico importato dalla Germania, ha twittato ai lavoratori dipendenti l’invito a marinare l’impiego per le due ore della partita. Subito, qualcuno ha fatto i conti: almeno 350 milioni di dollari sono stati sottratti al Pil da quel piccolo “sciopero del pallone” di giovedì. L’avesse fatto il ct azzurro, Matteo Renzi avrebbe dovuto risponderne in Parlamento.
Nemmeno vent’anni or sono, in quel 1994 che vide la Coppa del Mondo gettata su una nazione che non spese neppure un dollaro per costruire uno stadio nuovo e la guardò con la benevola curiosità con la quale in Italia assisteremmo a un mondiale di hockey su prato, il calcio aveva scosso i ratings televisivi e agitato i petti di tante persone. Dirette dal Brasile sono state mandate sui jumbo schermi degli stadi di baseball, contaminando la purezza di quel gioco cerebrale cantato da decenni di alta letteratura. E quando folle di tifosi “esultano”, come vuole lo slang del calcese, per una sconfitta che consente la qualificazione fra le 16 squadre migliori del mondo, il raggiungimento della massa critica detta “tifo” è vicino. Soltanto intenditori e tossici possono apprezzare anche le sconfitte.
Troppe volte la danza fra l’America del Nord e il “soccer”, parola che nasce dalla abbreviazione di “Association” essendo da evitare quella prima sillaba “ass” che significherebbe uno sgarbato “sedere”, è stata annunciata, da quando le prime rudimentali partite anche a 25 contro 25 furono giocate a New Orleans alla fine dell’800, per poter dire che finalmente la pandemia pallonara ha infettato anche gi Usa. Ma con i numeri non si discute: l’audience tv, il sacro graal di ogni spettacolo, ha superato anche le finali del baseball e del basket pro, seconda ormai soltanto all’inavvicinabile football americano. Il numero di tesserati e di praticanti cresce più di ogni altro sport, specialmente nell’età fra i nove e i 19 anni, il vivaio di futuri “fanaticos”, cioè fan, dunque consumatori. Per la prima volta, c’è un giocatore di calcio fra i “top ten” degli sportivi più venerati, Lionel Messi, e anche Davide Letterman dedica la propria lista di sarcasmi al licantropo uruguayano, Luis Suarez: «Oh mamma mia, questo italiano è talmente saporito che non serve neppure il ketchup».
Per il “soccer”, anche depurato dal fervore patriottico che ha spinto Obama all’incompetente pronostico di una vittoria finale, vale una celebre formula usata per il movimento delle donne negli anni ‘70: «You’ve come a long way, baby», hai fatto molta strada, piccolo. Non più straniero, figlio mai adottato che Mamma America aveva respinto per la colpa di non essere stato concepito qui, come il basket, il baseball o il football americano, il calcio era visto addirittura come una minaccia sociale. Ancora ci sono mentecatti di estrema destra, come la sgangherata, ma seguita polemista Ann Coulter, che così lo vedono. L’Anticristo. La nuova versione del maccartismo in mutande e parastinchi.
I tentativi di creare campionati di professionisti erano stati sempre accompagnati dalla spocchiosa ironia di chi si chiedeva perché mai si dovesse giostrare una palla con i piedi, evitando l’uso di quella mano che distingue gli umani dagli animali. Un trastullo da classi inferiori, per scalpellini italiani e giardineri honduregni, per tassisti iraniani e ristoratori greci, aggrappati alla nostalgia e alla Costa Atlantica. La battuta ricorrente era che negli stadi dove si giocavano le partite di Lega se l’altoparlante avesse annunciato l’arrivo della “Migra”, dell’agenzia per l’immigrazione nel gergo dei “latinos”, la calca degli illegali in fuga alle uscite avrebbe potuto fare morti e feriti. Un passatempo clandestino per clandestini.
Poi, senza isterie tifose, senza pompaggi di marketing, senza la forza di gravità di stelle ormai spente come i Pelè e i Chinaglia ingaggiati per fare scena, il miracolo delle praterie verdi marcate da righe di gesso è cominciato. È stato laggiù, nella sconfinata, e per noi inimmaginabile disponibilità di terra, nei sobborghi lontani delle grandi città che sono fioriti i campi di calcio, spesso a grappoli, dove ogni week end inseguono il pallone bambine di sei anni, adolescenti atletici, muratori, avvocati, dirigenti di mezza età e pancetta piena che rincorrono sul filo delle coronarie il sogno di un ultimo goal. Quattro milioni di persone sono regolarmente iscritte alla Federazione calcio (sono 1,3 milioni nell’Italia calciomane) e altri milioni si scalciano e si lesionano i legamenti e gli adduttori ogni fine settimana senza tessere.
Sono state le donne a spingere il calcio fuori dal ghetto e a renderlo trasversale. Le donne prima come partecipanti e giocatrici, avendo scoperto che la bellezza del calcio, nella varietà dei ruoli, è nel suo non richiedere mostruose virtù atletiche. E poi le donne come madri di pargoli portati a frotte, nei minivan famigliari, verso le praterie di erba e di gesso, per ansia di attività fisica e per il timore della violenza del football. Ne è nata una categoria insieme politica e sociologica, quella delle “soccer mom”, le mamme del pallone, signore in maggioranza, ma non solo, bianche, suburbanite, moderatamente progressiste, blandamente femministe di fronte a uno sport praticabile senza distinzione di genere.
Manca ancora, perché la “danza diffidente” divenga convivenza, l’identificazione campanilistica e ringhiosa con il club della propria città. Il Mondiale appassiona, perché trascende la sempre rischiosa insalata mista delle etnie americane. Unifica, anche nella anagrafe, giocatori che portano i cognomi di tutti, Altidore e Howard, Johansson e Beckerman, Diskerud e Wondolowski, Yedin e Gonzalez, Guzan e Rimando, “one nation”, in “one team”. Una squadra nella quale nessuno davvero eccelle, tutti sono coro e i guadagni, anche per chi gioca all’estero, sono da serie B, lontanissimi dai bottini principeschi di altri sport. Il paradosso è che lo sport degli alieni, il gioco “unamerican” è diventato, almeno per il lampo di un Mondiale, l’ultima rappresentazione del “sogno americano”.

Vittorio Zucconi, la Repubblica 28/6/2014