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 2014  giugno 28 Sabato calendario

CAPELLO, LA CADUTA DELLO ZAR

Ha vissuto tre vite: da calciatore, da sergente di ferro, da principe rinascimentale. Quattro milioni di euro l’anno a Londra, collezione d’arte contemporanea, cibi e abiti di gran gusto, Mercedes serie S con autista, Keith, abituato a rientrare da Manchester o Liverpool anche di notte; sette milioni l’anno a Mosca (ma secondo la tv indipendente Dozhd sono nove), e il privilegio di vivere sotto la coperta degli inverni russi: «Amo la neve. Quando nevica non mi dispiace affatto restare in casa a bere, mangiare, ascoltare musica». Ovviamente, Cajkovskij.
Anche qui in Brasile non c’era allenatore più elegante. Gli altri in divisa, o in giacca e cravatta come in ufficio; lui in camicia blu con maniche arrotolate, vezzoso gilet rosso con cravatta in tinta, orologio verde di design, occhiali griffati, capigliatura nerissima a sfidare l’età (il 18 giugno, all’indomani del modesto pareggio con la Corea del Sud, ha compiuto 68 anni).
Fabio Capello è l’italiano che in Brasile ha resistito più a lungo, ma solo per questioni di calendario. A casa Zaccheroni con il suo Giappone, eliminati gli azzurri, dimissionario Prandelli, restava lui (a parte l’arbitro Rizzoli). Gli è stata fatale l’Algeria, che già nel 2010 aveva strappato alla sua Inghilterra un inglorioso 0-0 a Città del Capo, e stavolta ha gettato fuori dal Mondiale la sua Russia. Alla fine Capello era furibondo con il portiere, Igor Akinfeev, il peggiore dei Mondiali, già coautore del gol coreano e ieri uscito a vuoto sul pareggio algerino. Ma in pubblico se l’è presa solo con gli arbitri, prevenuti verso il Paese di Putin: «Ogni volta che devono prendere una decisione, è sempre contro di noi. Non capisco perché ci sia un accanimento così accentuato nei nostri confronti. Contro il Belgio ci è stato negato un rigore solare. Contro l’Algeria pure…». La Federazione è rimasta insensibile, e ha fatto sapere che un c.t. così bravo e così remunerato agli ottavi ci deve arrivare. Nel 2018 i Mondiali si giocano nella grande patria russa, il contratto imperiale di Capello è stato prorogato fino ad allora, ma il disastro brasiliano non aiuta. Lui non desiste: «Finché mi vogliono, resto».
A parte Trapattoni, è il veterano del nostro calcio. Nato sull’Isonzo, nelle terre della Grande Guerra, figlio di un maestro di scuola, Guerrino, sopravvissuto a sei campi di prigionia della Seconda guerra mondiale, Fabio si forma a Ferrara, nella Spal. A 17 anni sul bus della linea 5 incontra una ragazza che studia da maestra, Laura. La sposa e non se ne separa mai, nelle peregrinazioni di lavoro e in viaggi principeschi per il mondo: alle Maldive quand’erano ancora il giardino dell’Eden, a Cancun prima che gli americani costruissero gli alberghi, e poi Tibet, Colombia, Giordania, Perù, Cambogia. Ha giocato nella Roma, nella Juve e nel Milan, e in tutte e tre le squadre è tornato da allenatore e ha vinto il campionato. Cattolico, «zagheto» (chierichetto) da ragazzo, ammiratore di papa Ratzinger — «sono contro l’aborto. Vado in chiesa e prego, ma solo per le cose serie» — e di Berlusconi, cui nel ’94 portò la Champions nella notte in cui il suo primo governo otteneva la fiducia al Senato. A Madrid Capello vinse la Liga due volte in due anni, ed elogiò «l’ordine che viene dagli anni di Franco». Accostò la Juve di Moggi al Psi di Craxi: «Due storie di persecuzione». Prima di Calciopoli riparò nel dammuso di Pantelleria e poi a Londra, senza però rinnegare l’amicizia con Lucianone, Giraudo e, già che c’era, pure Briatore.
Gli inglesi se ne innamorano. «Un genio» lo definisce il Times in prima pagina. Lui frequenta i teatri per i musical e la lirica, ama Bach e il balletto, visita le mostre della Tate Modern e della Waddington. Ogni tanto va a rivedersi Turner alla Tate Modern e le metope del Partenone al British. Con i calciatori però è duro, quasi rude. In Sudafrica deporta la squadra nell’estrema periferia della città mineraria di Rustenburg, nel territorio dei Bafockeng, bellicosa tribù bantu riconvertita in cavatori di platino. Nessuna «wag»: né mogli né fidanzate. Vietati ketchup, senape, maionese e patatine fritte; sostituito il burro con l’olio; cellulari accesi non più di tre ore al giorno, divieto di girare in albergo con braghe corte e infradito. Terry degradato da capitano per la sua relazione con la fidanzata di un altro. Gli allenamenti ripresi dall’alto e mostrati ai calciatori, rimproverati per gli errori di posizione. Quando la Germania li travolse 4 a 1, per Rooney e gli altri fu quasi una liberazione.
Il Sunday Times valutò il patrimonio di Capello in 35 milioni di euro: l’allenatore più ricco del mondo. I tabloid gli attribuirono opere di Chagall, Kandinsky, de Chirico per un totale di 19 milioni. Lui smentisce, ma riconosce il legame con Piero Pizzi Cannella e l’ammirazione per Rauschenberg, Tapies, Kounellis, Gilbert&George e Paolo Icaro. È amico di Francesco De Gregori e di Valery Gergiev, il leggendario direttore d’orchestra russo. Frequenta capi di Stato e di governo: in Thailandia cenò con Taksin, il Berlusconi locale, poi esiliato.
Anche a Mosca è considerato un personaggio importante. «Russia Oggi» l’ha definito «grande conoscitore e amante della cultura russa». Con la moglie ha preso casa: detesta gli alberghi. Si è portato dietro lo staff di sempre: il vice Italo Galbiati, il preparatore atletico Massimo Neri, il team manager Christian Panucci. Frequenta il Bolshoi. Non ha ancora incontrato Putin, ma intende farlo presto: «Chiedo di lui ai russi, e loro sono molto contenti. Dicono che hanno bisogno di un presidente come lui, che prenda decisioni». Vedremo se ora Putin deciderà sul suo contratto. Noi siamo più affezionati al Capello di Wembley 1973, che con il suo gol batte gli inglesi per la prima volta a casa loro, e dedica la vittoria ai camerieri italiani irrisi dai giornali.