Enrico Marro, Corriere della Sera 28/6/2014, 28 giugno 2014
PARLAMENTO SENZA TETTO AGLI STIPENDI, BISOGNA TRATTARE CON 25 SINDACATI
L’altro ieri l’ufficio di presidenza della Camera ha approvato il bilancio pluriennale 2014-16 che verrà portato all’esame dell’aula il 21 luglio. Le spese di Montecitorio, assicura un comunicato, diminuiranno di 138 milioni in due anni. Un piccolo segnale rispetto al totale delle spese di funzionamento della Camera che ammonta a circa un miliardo l’anno. Segnale al quale tra l’altro non contribuisce, almeno per ora, il tetto di 240 mila euro lordi alle retribuzioni, già in vigore da maggio per tutti i dirigenti pubblici in virtù del decreto legge 66 del governo, ma che alla Camera, come al Senato, non può essere applicato. Affinché il tetto sia valido anche per i dirigenti del Parlamento, che nelle posizioni di vertice guadagno il doppio, c’è infatti bisogno di una autonoma decisione delle camere, che arriverà però solo dopo una trattativa con i sindacati. I quali, incredibile ma vero, sono 25: 11 alla Camera per circa 1.400 dipendenti (una sigla ogni 127 lavoratori) e 14 al Senato per 820 dipendenti (una organizzazione ogni 58 addetti).
Questa mission impossible è affidata alla Camera al «Cap», il Comitato per gli affari del personale guidato dalla vicepresidente Marina Sereni (Pd), e al Senato alla «Rappresentanza permanente» diretta dalla vicepresidente Valeria Fedeli, anche lei del Pd. Entrambe vorrebbero procedere insieme e chiudere la partita prima delle ferie d’agosto, ma al momento non esiste neppure la proposta da presentare ai sindacati. I due uffici, nei quali sono presenti parlamentari della maggioranza e dell’opposizione, si sono riuniti due volte, l’ultima l’altro ieri, ma senza trovare un accordo. Si fronteggiano infatti due posizioni: una, maggioritaria, che vorrebbe sì il tetto di 240mila euro, ma al netto degli oneri previdenziali e di indennità varie; l’altra, del Movimento 5 stelle, per il quale «il tetto deve essere onnicomprensivo, altrimenti si realizza un aggiramento dello stesso», dice Riccardo Fraccaro membro del Cap. Basti pensare che gli oneri previdenziali valgono da soli più di 71 mila euro l’anno per il segretario generale della Camera e più di 40mila euro per la metà dei consiglieri.
Ma, al di là della difficoltà di arrivare a una proposta da presentare ai sindacati, il problema è che l’applicazione del tetto comporterebbe un taglio forte, in alcuni casi fortissimo, della retribuzione di almeno il 40% del personale. Non si può infatti applicare semplicemente il limite dei 240mila euro (che pure colpirebbe 88 consiglieri solo alla Camera) senza riparametrare tutte le fasce stipendiali. Altrimenti si avrebbe il paradosso che il vertice, cioè il segretario generale, prenderebbe quanto un documentarista o un tecnico ragioniere. Quindi, per mantenere le giuste proporzioni, se il segretario generale, che oggi prende circa 480 mila euro lordi , dovesse scendere a 240 mila, dovrebbero essere messi dei tetti a scalare per le qualifiche inferiori. Il clima tra i dipendenti rasenta la rivolta. Chi può, nel caso passassero i tagli, avrebbe convenienza ad andare in pensione: prenderebbe di più, visto che sulle pensioni almeno per ora non si parla di tetti e considerando che i lavoratori più anziani godono ancora di età di accesso al pensionamento anticipato e di regole di calcolo dell’assegno estremamente favorevoli.
Ma perché quello che il governo ha stabilito con l’articolo 13 del decreto 66, cioè il tetto di 240mila euro lordi non può essere applicato a Camera e Senato? Perché il Parlamento gode della «autodichia», conseguenza dell’articolo 64 della Costituzione. L’autodichia significa che le Camere hanno una giurisdizione riservata sullo status giuridico ed economico dei propri dipendenti, che viene quindi definito attraverso atti interni, non modificabili dalla legge. L’istituto, nato per garantire l’indipendenza del Parlamento, ha tuttavia dato luogo a un insieme di trattamenti retributivi e pensionistici privilegiati. Di recente sull’autodichia si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 120 (pubblicata lo scorso 14 maggio sulla Gazzetta ufficiale) redatta da Giuliano Amato. Il caso riguardava un dipendente del Senato che in una controversia di lavoro voleva essere giudicato dalla magistratura ordinaria anziché dagli organi interni di Palazzo Madama e chiedeva quindi fosse dichiarata l’incostituzionalità dell’autodichia. Amato ha respinto la richiesta, ma solo per un fatto formale, cioè perché la Corte non è competente ad esprimersi sui regolamenti parlamentari in quanto non sono leggi. Il «dottor Sottile», tra le righe, ha però suggerito una via d’uscita al governo. Che se davvero volesse mettere in discussione il raggio d’azione dell’autodichia potrebbe sollevare «un conflitto di attribuzione» contestando che i regolamenti parlamentari possano disciplinare anche i rapporti di lavoro (in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna infatti non è così, osserva Amato). In quel caso, conclude la sentenza, la Corte potrebbe «ristabilire il confine tra i poteri». Chissà che non debba finire così.
Enrico Marro