Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 27 Venerdì calendario

UN SOS CUCITO NEI PANTALONI: «SIAMO SCHIAVI CINESI, SALVATECI»

I naufraghi affidano le richieste di soccorso a una bottiglia. Uno schiavo o una schiava cinese ha infilato il suo messaggio nella tasca di un pantalone. Le probabilità che arrivasse in mano a qualcuno erano più o meno le stesse di quelle di un uomo abbandonato su un’isola in mezzo all’oceano. Eppure alla fine il messaggio è giunto a destinazione, dopo un viaggio intorno al mondo conclusosi nell’armadio di una casa vicino a Belfast, in Irlanda del Nord.
Karen Wisinska aveva acquistato un paio di calzoni sportivi stile cargo da Primark, una catena di grandi magazzini a basso prezzo, nel capoluogo dell’Ulster tre anni fa, ma non li aveva mai indossati perché la chiusura lampo era difettosa. La settimana scorsa, preparando la valigia per una vacanza, li ha tirati fuori dal guardaroba e ha notato che una tasca era rigonfia, come se ci fosse dentro qualcosa. Ha slacciato un bottone, ci ha messo la mano dentro e ha estratto un biglietto accuratamente ripiegato. Era un cartoncino scritto in caratteri cinesi, per cui non poteva comprenderne il significato, ma in cima c’erano, in alfabeto latino, tre parole che chiunque conosce, in tutte le lingue: «SOS», seguita da un punto esclamativo. Il segnale internazionale di richiesta di aiuto.
Non ancora completamente convinta, ha fotografato il biglietto, lo ha messo sulla propria pagina di Facebook e chiesto agli amici se qualcuno era in grado di decifrarlo. Quando ha ricevuto una prima bozza di traduzione è rimasta scioccata: «Era stato scritto da qualcuno che evidentemente lavorava in condizioni di schiavitù in una prigione cinese».
A quel punto si è rivolta ad Amnesty International e la sua impressione è stata confermata: il messaggio sembra provenire dal Gulag di Pechino, dove apparentemente i detenuti sono costretti a lavorare in condizioni disumane per produrre articoli da vendere poi alle grandi aziende occidentali. Il prigioniero o la prigioniera cinese avrebbe confezionato personalmente i pantaloni per la Primark, rischiando la vita per nasconderci dentro il suo Sos. «Siamo detenuti nella prigione Xiangnan di Hubei, in Cina», afferma il biglietto. «Da molto tempo lavoriamo in carcere per produrre abbigliamento per l’esportazione. Ci fanno fare turni di 15 ore al giorno. Quello che ci danno da mangiare è perfino peggio di quello che si darebbe un cane o a un maiale. Siamo tenuti ai lavori forzati come animali, usati come buoi o cavalli. Chiediamo alla comunità internazionale di condannare la Cina per questo trattamento disumano».
Commenta Patrick Corrigan, direttore di Amnesty in Irlanda del Nord: «È una storia orribile. Naturalmente sarà molto difficile appurare se è genuina, ma abbiamo il timore che sia solo la punta di un iceberg». La Primark ha aperto immediatamente un’inchiesta. «Tre quarti dei pantaloni di quel tipo sono stati acquistati da noi all’inizio del 2009», dice un portavoce dei grandi magazzini alla Bbc.
«Troviamo un po’ strano che il biglietto sia venuto alla luce solo ora, quando i pantaloni sono stati comprati nel 2001. Contatteremo la cliente per farci dare l’indumento e per proseguire le indagini. Dal 2009 ad oggi la Primark ha condotto nove ispezioni dei nostri fornitori per verificare il rispetto degli standard etici in Cina e altrove, e nessun caso di lavori forzati, lavori in prigione o altre violazioni è mai stato riscontrato».
Si tratta tuttavia della stessa azienda coinvolta, insieme ad altre marche d’abbigliamento occidentali, nel crollo di uno stabilimento in Bangladesh in cui morirono più di 1100 persone: criticata per non avere denunciato le insufficienti condizioni di sicurezza dello stabile, la Primark ha finora pagato 12 milioni di dollari (8 milioni di euro) di indennizzo ai familiari delle vittime e sostiene di avere moltiplicato le ispezioni dei suoi fornitori.
Non è la prima volta che un capo d’abbigliamento della Primark viene ritrovato un biglietto con richieste di soccorso da parte di presunti schiavi dell’industria del fashion in Cina o in altri paesi in via di sviluppo. Il boom del settore tessile nel Terzo Mondo è uno dei motori della globalizzazione e sta portando milioni di famiglie fuori dalla povertà. Ma l’altra faccia della crescita è lo sfruttamento. E talvolta per denunciarlo non c’è altro mezzo che un messaggio in una tasca di pantaloni.
Enrico Franceschini