Alessandro De Nicola, la Repubblica 27/6/2014, 27 giugno 2014
SE LE LOBBY NON CONOSCONO CRISI
Chi ha detto che finito il governo Letta sono tramontate le larghe intese? Quando si tratta di allearsi contro i diritti di libertà economica o per motivi ideologici o a favore di lobby potenti per concrete ragioni di convenienza, il consociativismo regna sovrano.
Prendiamo l’annosa questione delle aperture festive degli esercizi commerciali. Una delle poche liberalizzazioni portate a termine dal governo Monti nell’inverno 2011-2012 fu quella degli orari dei negozi. Con il famoso decreto Salva-Italia il governo del professore sancì che la Pubblica amministrazione non poteva più frapporre ostacoli alla libera scelta dei commercianti di fare affari come e quando loro pareva.
Fin dall’inizio la riforma fu osteggiata sia dalle associazioni dei commercianti, i quali si sentivano minacciati dalla grande distribuzione che poteva organizzarsi in modo più flessibile ed efficiente, sia dai loro referenti politici, come la Lega, una parte sostanziosa dell’allora Pdl e deputati sparsi in ogni partito (per convinzione anti-capitalista o convenienza), cui si sono aggiunti i grillini, contrari alle aperture libere in attesa che le stampanti 3D aboliscano del tutto la necessità di far shopping e la Chiesa, preoccupata di santificare le feste e popolare le messe.
Questa variopinta coalizione ha trovato espressione in un disegno di legge bipartisan, a firma del deputato Pd Angelo Senaldi, approvato di recente dalla commissione attività produttive con il voto favorevole di tutte le forze politiche, tranne il Gruppo Misto che ha votato contro nonché con l’astensione di M5S (che vorrebbe qualcosa di più restrittivo) e di Scelta Civica (nota a margine: perché un partito quasi dissolto come SC almeno su questi temi non fa un po’ di baraonda e di battaglie di principio? Misteri della politica).
Il ddl approvato prevede 12 obbligatorie all’anno in corrispondenza delle festività nazionali, con il 50% delle stesse chiusure spostabili ad altra data dai Comuni, innescando un processo di consultazione, in parte telematico coi cittadini, in parte tra comuni limitrofi e in ultima istanza con la Regione, che definire ridicolo è quasi gentile. La finalità — secondo l’onorevole Senaldi — sarebbe di tornare a una condivisione dei valori delle festività nazionali, civili e religiose.
Ebbene, andiamo con ordine.
Nessuno con un po’ di buon senso osa affermare che la liberalizzazione degli orari non porta a benefici economici. Persino il vicepresidente di Confcommercio, Lino Stoppani, ha dichiarato che le liberalizzazioni garantiscono efficienza economica ma creano disagio sociale.
Quindi, non bastassero gli studi Ocse o i reiterati pareri dell’Autorità Antitrust a convincere i dubbiosi, ci pensano gli stessi avversari delle aperture libere ad ammettere ciò che è evidente.
In cosa consisterebbe il disagio sociale? Nel non “santificare” civilmente o religiosamente le feste? Lo stesso Senaldi, ammettendo che 6 su 12 festività e per di più a macchia di leopardo possano essere lasciate libere dai Comuni, toglie ogni credibilità ai motivi di celebrazione delle stesse. Senza contare che a Venezia non è che il 25 aprile (coincidente con San Marco, peraltro) si festeggi di meno perché, in quanto località turistica, i suoi esercizi commerciali sono da sempre aperti.
Resta la “desertificazione” dei centri storici. Ora, a prescindere dal fatto che gli ultimi dati annuali parlano di un arresto della diminuzione delle botteghe presenti sul territorio, non si tiene nel dovuto conto che dal 2007 ad oggi il Pil italiano è diminuito del 9% in termini reali, equivalenti a 150 miliardi di euro. Ci sarebbe da stupirsi se i consumi fossero aumentati e, d’altronde, anche i centri commerciali chiudono o hanno smesso di aprire. Incidentalmente, peraltro, secondo i dati della stessa Confesercenti, i consumi dal 2008 al 2012 sono comunque scesi meno del Pil complessivo.
Inoltre, del disagio di chi stiamo parlando? Il primo vero vulnus è quello di conculcare una facoltà individuale, quella di scambiare prodotti in cambio di denaro nel momento che si ritiene più opportuno. La politica, purtroppo, si indigna per la più banale violazione di presunti diritti (spesso privilegi) e poi si distrae quando libertà fondamentali vengono calpestate.
E i consumatori? Secondo l’indagine Ispo, il 65% è contento dei negozi accessibili la domenica, percentuale che sale all’80% tra i giovani (in effetti le persone anziane, avendo più tempo a disposizione, sentono meno il beneficio dell’apertura libera), ma evidentemente il disagio sociale di chi fa la spesa non è tenuto in conto. Altrettanto rilevante è il dato del 62% degli intervistati che dichiara di aver acquistato di domenica cose in più rispetto a quelle che avrebbe comprato in settimana mentre solo il 35% si rifornisce di ciò che non ha potuto nei giorni feriali.
La realtà semplice è che un importante gruppo di pressione, i commercianti, legittimamente spinge perché vengano approvate leggi ad esso favorevoli, in quanto federarsi, creare centrali d’acquisto, cooperative e altre forme di collaborazione economica tra piccoli è forse ritenuto troppo faticoso.
Tuttavia, si può comprenderli. Meno comprensibile è l’appiattimento del mondo politico o peggio del ministro “tecnico” e “liberista” dello Sviluppo economico, Guidi, rispetto a richieste anacronistiche e dall’impatto economico negativo. Pure in questo caso, sarà bene #cambiareverso in fretta.
Alessandro De Nicola