Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 27/6/2014, 27 giugno 2014
DALLE URNE USCIRANNO ULTERIORI MOTIVI DI DIVISIONE
Non facciamoci illusioni, non sarà con queste elezioni monche e controverse che la Libia guadagnerà stabilità, anzi è possibile che il Paese trovi presto altri motivi per spaccarsi sia dal punto di vista geografico - tra Tripolitania e Cirenaica - che sotto il profilo politico-ideologico, nella contrapposizione sempre più accesa tra islamici e contro-rivoluzionari. Perché in buona parte dei libici si è insinuato il concreto dubbio che la caduta di Gheddafi e soprattutto il modo in cui è avvenuta sia stato un disastro, magari necessario ma un disastro. Anche una probabile vittoria dei cosiddetti "moderati" non toglierà le armi a 1.200 tra milizie, clan e tribù che da oltre due anni stanno facendo a brandelli il Paese.
La Libia, come la Siria e l’Iraq, appare destinata a infoltire la schiera degli ex Stati. Eppure qualunque sarà il risultato delle urne verrà applaudito in Occidente come un’altra prova che la "transizione" libica è in marcia. La parola transizione qui come altrove sta a significare caos e anarchia, non il passaggio verso più accettabili forme di convivenza.
Gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno un’idea singolare di normalità, soprattutto nel formato da esportazione. Tony Blair insiste ancora oggi a difendere come un successo la guerra del 2003 in Iraq. Ma difficilmente si azzarderebbe a passeggiare per le strade di Baghdad, cioè a compiere un gesto assolutamente normale. Il premier David Cameron si comporta non diversamente da Blair con l’intervento in Libia. Ma certo non osa ripetere a Tripoli e Bengasi il tour trionfale che compì insieme a Nicolas Sarkozy il 15 settembre 2011. Questa coppia, all’origine dell’attacco a Gheddafi, fu seguita il giorno dopo dalla passeggiata del leader turco Tayyip Erdogan.
La politica di Erdogan merita una riflessione per capire in quali grovigli inestricabili si è impigliato l’Occidente. In Piazza dei Martiri a Tripoli Erdogan arringò le folle con un discorso infuocato contro l’altro dittatore da abbattere, Bashar Assad. Alle parole seguirono i fatti: migliaia di libici dei gruppi islamici più radicali si imbarcarono per la Turchia con destinazione la jihad in Siria. Insieme a loro qaedisti e salafiti di ogni provenienza, una sorta di legione straniera della Guerra Santa lubrificata dai soldi qatarini e sauditi che si installò al confine siriano nella provincia di Antiochia. Molti tornarono in patria, riducendo Bengasi a un campo di battaglia, una parte si è arruolata con Jabat al Nusra e lo Stato islamico dell’Iraq e Levante (Isil), il movimento che sta mettendo a ferro e fuoco l’Iraq. Non è certo con le acrobazie islamiste di Erdogan che si stabilizza il Medio Oriente e si esporta la democrazia in Libia, in Siria o in Iraq, anzi si direbbe il contrario.
È con questa compagnia di partner e alleati - tali soltanto in via teorica - che gli italiani si preparano a perdere la Libia per la terza volta in un secolo. Lo confermano gli scenari diplomatici post elettorali.
Il primo a perdere il posto sarà l’inviato dell’Onu Tarek Mitri, che prima del voto avrebbe voluto convocare una conferenza di dialogo nazionale fatta saltare da britannici e americani. I britannici vogliono consegnarli un biglietto di sola andata mentre gli Stati Uniti sperano che il generale Heftar faccia il lavoro sporco, cioè far fuori gli islamici di Ansar el Sharia con l’appoggio dell’Egitto e dei sauditi.
Mitri, un libanese greco ortodosso, è considerato un oppositore dell’Islam politico mentre l’inviato britannico Jonathan Powell, sostenuto dagli Stati Uniti, vuole dettare la sua agenda che comprende nella nuova costituzione «la sharia come fonte principale della legislazione». Si tratta di una classica strategia coloniale di imperiale memoria: eliminare gli islamisti "cattivi" e tenersi quelli "buoni". Una soluzione che piace anche a Washington.
Nel difendere l’intervento del 2011, Cameron intende usare anche l’appoggio degli islamisti per far nascere una nuova Libia con l’imprinting britannico. L’obiettivo, per il quale ha stanziato cifre considerevoli a favore dell’amministrazione libica, è mettere le mani sulle risorse di Tripoli tenendo ai margini l’Italia e la stessa Unione europea. Colpisce che il presidente americano Barack Obama, dopo avere riconosciuto all’Italia una posizione preminente in Libia, ora sia appiattito sulle posizioni inglesi. Ma era difficile immaginare che l’Italia, pur avendo partecipato ai bombardamenti, non avrebbe pagato duramente la sconfitta dell’alleato Gheddafi. Come diceva un celebre premier britannico, gli Stati non hanno amici ma soltanto interessi e i nostri, paradossalmente, li difenderanno soltanto i libici.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 27/6/2014