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 2014  giugno 27 Venerdì calendario

LE NOMINE A BRUXELLES E LA STRATEGIA DELL’ASSURDO


«Caro Denis sono molto più euroscettico di quanto tu possa immaginare». Per capire che cosa potrebbe accadere al vertice europeo cominciato ieri a Ypres dove si giocano gli equilibri dell’Unione con la definizione degli assetti della Commissione, minacciati dallo strappo inglese e dalle ambizioni nazionali, è utile ricorrere all’aneddotica della politica britannica. Racconta di una chiacchierata nelle docce di Westminster fra l’ex ministro agli Affari europei, il laburista Denis Mac Shane, e David Cameron all’epoca in corsa per la leadership del partito. L’attuale premier, già nel 2005, prometteva fedeltà all’eurofreddezza, ideologia trasversale nel regno di Elisabetta. Quanto è andato in scena in questi giorni, e quanto minaccia di avvenire nelle prossime ore al summit dei capi di governo dei Ventotto, conferma il senso della battuta colta negli spogliatoi dei Comuni. La frattura con Londra complica la trattativa sui portafogli da assegnare, accelerando, al contempo, l’ideale passaggio del premier inglese nelle file degli euroscettici. Per scelta, ma ancor di più per default. Sfidare, fino in fondo, i partner sulla scelta del presidente della Commissione significherebbe distanziarsi anche dalla linea mediana del dibattito europeo british style. Vorrebbe dire allontanarsi da una pragmatica membership, riluttante a ogni deriva federalista, ma capace di lasciare ai margini sia la pattuglia di eurofans, sia le batterie di euroscettici. Questo assetto è destinato ad essere sconvolto se trionferà davvero la fermezza da aspirante «Iron gentleman» del premier britannico. E, francamente, non riusciamo a scorgere quale ultimo diaframma rimarrebbe a dividere David Cameron dal radicalismo anti-europeo di marca Tory.
Né è strategia che sembra garantire un dividendo. Londra fino ad ora ha evitato di definire le aspirazioni britanniche nella Commissione che verrà, mostrando di volersi concentrare solo sulla campagna contro Jean Claude Juncker.
Si sa che Energia e Mercato interno sono poltrone più che accettabili, anzi ambite, anche per un Paese che lascia gli Esteri ora occupati da Catherine Ashton. Nessuno dei nomi che circolano per i posti top, a cominciare dalla presidenza del Consiglio Ue, è fortemente associato alla Gran Bretagna. Passata, e resterà da vedere come, la nomina di Juncker, Londra, potrebbe ottenere un rinvio di qualche settimana nel vertice di Ypres per chiudere a metà luglio e con residuo onore la trattativa sulle poltrone. Inghiottito l’ex premier lussemburghese, David Cameron cercherà qualche compensazione e la guadagnerà, forse. Eppure nessun premio in offerta potrà davvero bastare per cambiare i termini del dissidio fra Londra e il resto d’Europa.
All’origine di un’involuzione che è tanto nella natura dell’uomo - insofferente e poco uso al confronto continentale - quanto prodotto di una spirale in parte incontrollabile degli eventi, c’è una data precisa: il 23 gennaio 2013. Quel giorno David Cameron chiamò alle armi un Paese intero, promettendo la consultazione sulla Ue. «Annunciando il referendum il premier ha liberato il genio dalla lampada» ci disse un anno fa un ex ministro di Margaret Thatcher, scuotendo la testa immerso in ricordi d’altri tempi.
Da allora il primo ministro inglese è andato alla rincorsa di un partito in fuga. L’idea che il referendum potesse placare la fame di un animale insaziabile come la lobby più radicale del Tory party s’è infranta contro la realtà. Bruxelles è divenuta l’avversario, mescolando istanze, talvolta del tutto condivisibili, a un’inaccettabile retorica ad uso interno. Da allora, inoltre, l’eurofobo Ukip ha ampliato il consenso, minacciando i seggi conservatori. Il botto degli indipendentisti alle europee ha fatto il resto, trasformando un partito buono per la protesta in una realtà politica che soffia sul collo del governo. La spinta su Cameron è aumentata. E lui s’è lasciato morbidamente sospingere, con apparente soddisfazione più che malcelata insofferenza, verso il combattimento multilaterale sul campo europeo, con toni e personalismi estranei alla tradizione negoziale. Si sono sfilati gli amici svedesi e gli alleati finlandesi, ha perso terreno la danese Helle Thorning Schmidt, socialista ma considerata gradita a Londra per succedere a Herman Von Rompuy, in un rosario degli addii che l’ha lasciato solo con l’ungherese Viktor Orban, non il meglio dell’offerta Ue. Prevedibile, anzi previsto non solo da esegeti dell’analisi europea, ma anche da manovali del commento politico.
E allora perché tanti inspiegabili inciampi, tanti teatrali errori? Su questo giornale abbiamo scritto che forse David Cameron aveva adottato una "strategia dell’assurdo" pronto a perdere la prima battaglia nella trincea anti-Juncker, per vincere ampie deroghe alla membership da offrire nel referendum. Resta una strategia a dir poco "non convenzionale", ma è anche l’unica che possa spiegare le ragioni di tanti sbagli, cominciati con l’aver portato i Tory fuori dal Partito popolare europeo da dove avrebbe potuto manovrare con più efficacia contro l’ex premier lussemburghese. Una mossa che non piacque al suo ministro degli esteri, William Hague, tutt’altro che un eurofilo.
L’alternativa a questo scenario è la constatazione del lento scivolare di Cameron nell’euroscetticismo per default, approdo di una dinamica fatta di deboli convinzioni ed esclusiva ricerca del consenso interno, condita da occasionale miopia politica. Ricetta esplosiva che non promette la vittoria. Agli inglesi, con gusto vagamente perverso, piacciono i premier che si battono per il loro interesse, ma disprezzano quelli che li relegano entro i confini angusti delle isole britanniche.

Leonardo Maisano, Il Sole 24 Ore 27/6/2014